sabato 22 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \4

Con la fine del comunismo in Unione Sovietica crolla un intero mondo che, per quarant'anni, grazie all'alleanza tra le forze del laburismo inglese, della sociologia della scuola di Francoforte, delle correnti del cattolicesimo sociale e dei paesi comunisti, ha tenuto in scacco l'economia dei paesi occidentali, mantenendola nel binario più favorevole ad esse, quello costituito dalla grande industria sovvenzionata dallo stato, con il sostegno delle organizzazioni sindacali. Questo modello ha funzionato per oltre quarant'anni e ha garantito all'Occidente la democrazia, la pace e lo sviluppo economico, dopo la tragedia delle due guerre mondiali e dell'olocausto. Il modello però aveva un tarlo, un convitato di pietra costituito dalle forze economiche di estrema destra che, pur sconfitte, erano riuscite a inserirsi nel sistema grazie al ruolo svolto dai mediatori del commercio di armi, di cui l'Unione Sovietica aveva bisogno sia per importare tecnologia militare che per esportarla. Alla fine della Guerra Fredda, quando le potenze vincitrici hanno voluto creare un nuovo tipo di economia, fondata sul rilancio degli scambi commerciali e sull'indebolimento delle tutele sindacali, le forze di estrema destra hanno ottenuto carta bianca per riorganizzare l'intera produzione di armamenti mondiale, perché questa era la base per avviare un nuovo processo di concentrazione del capitale, svincolato dai vecchi equilibri. La tragedia di interi popoli, dalla Jugoslavia alla Somalia al Ruanda, è stato il premio ottenuto non, come la retorica post-guerra fredda ha voluto far credere, per aver combattuto il comunismo ma, al contrario, per aver diligentemente collaborato al mantenimento delle buone relazioni tra Oriente e Occidente, rimanendo in posizione defilata ancorché essenziale per l'economia mondiale.



Una puntata della trasmissione Report, condotta da Milena Gabanelli, dal titolo "Le vie delle armi non sono infinite", del 3/11/1999, prende spunto dal sequestro, avvenuto nel porto di Ancona, di un grosso carico di armi stipato in un camion della Caritas. Nella trasmissione, infarcita di interviste a ex dirigenti dei servizi segreti e a giovani generali dall'accento marcatamente piemontese, si afferma che negli anni novanta il Monte dei Paschi di Siena ha svolto un'intensa attività di mediazione del traffico di armi. Il nocciolo della trasmissione è che alla banca toscana sia stato imposto una sorta di contrappasso per vendicarsi delle passate collaborazioni con i regimi comunisti. Può darsi che ciò sia vero; resta il fatto che il tempismo della puntata di Report in questione è impressionante: il 3 novembre del 1999 non solo era già finita la guerra civile in Jugoslavia, con relativo scannatoio, ma Milosevic aveva anche accettato la proposta di armistizio da parte della diplomazia internazionale sul Kosovo, dietro la garanzia che l'indipendenza della regione non sarebbe stata una delle condizioni necessarie per la pace.
Qualche anno prima un'altra giornalista, Ilaria Alpi, dotata di meno tempismo della Gabanelli, venne uccisa in Somalia assieme al suo operatore, Miran Hrovatin, per essere andata a mettere il naso in un traffico di armi nel quale erano coinvolti, in maniera poco limpida, anche l'esercito e i servizi segreti italiani.
Da segnalare il commento finale con cui la Gabanelli chiude la trasmissione: "le industrie degli armamenti servono a garantire l'autonomia di un paese. Queste industrie costano e si mantengono anche con l'esportazione delle armi oppure le manteniamo noi con le nostre tasse. Ma questa ipotesi sicuramente, non piace. Allora, quando vediamo gente che soffre, conflitti in giro per il mondo, preferiamo indignarci e ogni tanto, magari, fare un po' di beneficenza." 
Oppure, aggiungo io, condurre trasmissioni televisive di denuncia con la collaborazione di soggetti di dubbia reputazione e provenienza, considerato che i servizi segreti italiani non hanno mai odorato di bucato e l'esercito è coinvolto a pieno titolo nella produzione di quel materiale bellico che ha provocato sofferenze immani a milioni di persone innocenti in giro per il mondo. La  Jugoslavia produceva ed esportava armi, ma ciò non è servito a garantirne l'autonomia. Al contrario, ne ha garantito solo l'autodistruzione, e al momento opportuno per favorire la riorganizzazione dell'industria degli armamenti italiana e mondiale.
E' vero: le vie delle armi non sono infinite. Speriamo solo che, per quanto riguarda il nostro paese, non si arrestino nelle aule del Tribunale per i Crimini di Guerra nella ex-Jugoslavia. ( fine )

giovedì 20 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \3

La bilancia dei pagamenti della Jugoslavia è costantemente in rosso: il maresciallo Tito non può contare sull’esportazione di materie prime come l’Unione Sovietica e ha bisogno di accedere continuamente ai prestiti internazionali per sostenere il massiccio apparato militare che costituisce l’ossatura del suo paese, finanziato solo in parte dalla produzione di armi leggere. 
La comunità internazionale, però, vuole aiutare la Jugoslavia perché ha bisogno dell’ opera di Tito per accedere al petrolio dei paesi del Terzo Mondo: il nostro paese, avendo un forte partito comunista e un passato di lotta partigiana, è il  più adatto a svolgere la funzione di partner economico-commerciale del paese balcanico. La Camera di Commercio di Milano, negli anni settanta, apre una sezione dedicata al commercio italo-jugoslavo e Raif Dizderevic, ultimo presidente della Repubblica Jugoslava, scrive nelle sue memorie, pubblicate da Longo Editore, a Ravenna: “le banche italiane sono state sempre molto generose con la Jugoslavia”.
Un istituto in particolare, che rappresenta la tradizione più prestigiosa della nostra storia nazionale, ha avuto rapporti economici molto intensi con tutti i paesi del blocco comunista, potendo usufruire della condizione di monopolio sul commercio estero del nostro paese. Ogni transazione commerciale, infatti, ha bisogno di una banca d’appoggio e nel caso italiano questa banca è il Monte dei Paschi di Siena.
Affari sicuri e grossi guadagni, perché i regimi comunisti hanno bisogno di tutto e comprano tutto, non solo tecnologia (alla fine degli anni sessanta l’Italia è il maggior esportatore mondiale di macchinari in Unione Sovietica) ma anche beni di prima necessità come il grano, di cui gli Stati Uniti sono i primi fornitori, facendo la fortuna della Bank of America, la principale banca commerciale americana, che finanzia sia l’URSS che i coltivatori americani. In Francia questo ruolo viene esercitato dal Credit Lyonnais, ma quasi tutte le grandi banche, volente o nolente, prestano denaro ai paesi comunisti.
La Distensione, per questi istituti, si rivela un colossale affare e alcuni di essi possono permettersi il lusso di svolgere un’attività  di mecenatismo che difficilmente riuscirebbero a esercitare sotto le normali condizioni dell’economia di mercato. Gli anni della Distensione, infatti, sono quelli del grande boom dell’industria culturale: musica, cinema, televisione, fumetti, arte. La cultura di massa raggiunge il suo apogeo. Gli istituti di credito possono permettersi di finanziare artisti di talento alle prime armi senza preoccuparsi più di tanto se questi raggiungono subito il successo o meno, tanto il denaro affluisce con generosità nelle loro casse, più o meno come il grano nei depositi dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. La Bank of America finanzia il primo film di Walt Disney e il lavoro di due giovani laureati dell’Università di Stanford, Bill Hewlett e David Packard, i quali, dopo aver brevettato un oscillatore audio che lo stesso Disney utilizzerà nel film Fantasia, fonderanno la Hewlett-Packard, che diverrà un colosso nel settore dell’elettronica e, in seguito, dell’informatica. La filiale olandese del Credit Lyonnais sborsa quattrini a ripetizione per sostenere il cinema indipendente di Hollywood. Sono questi gli anni d’oro del cinema italiano, che oggi fatica a trovare fonti di finanziamento, ma che all’epoca riusciva a sfornare in continuazione film di alto livello grazie a registi e attori di talento.
Fu forse per questo motivo (chissà?) che quando nel 1977 la Biennale di Venezia decide di dedicare la mostra al tema del dissenso nei paesi dell’Europa dell’Est, si dovrà scontrare non solo con l’opposizione di Mosca, espressa chiaramente dall’ambasciatore sovietico a Roma, ma anche con quella di attori, letterati, registi, critici d’arte, giornalisti, editori, musicisti e politici di varia estrazione, appartenenti al Pci e non. La Biennale del Dissenso è organizzata da Carlo Ripa di Meana, notoriamente in quota Psi, il che presumibilmente spinge in tanti a pensare che ci sia qualcosa di strumentale nella scelta del tema centrale della mostra. Ma a parte ciò, è innegabile che per il mondo dell’arte e della cultura è troppo importante lasciare aperto il corridoio di comunicazione con i regimi comunisti.  E non sempre in maniera innocua, perché capita anche che grosse partite di armi lascino il nostro paese con destinazione Bulgaria, per citare un esempio, e poi finiscano nelle mani di qualche movimento marxista rivoluzionario o addirittura di qualche organizzazione terroristica.
Il gioco funziona fino a quando Ronald Reagan non viene eletto presidente degli Stati Uniti. L’ex attore decide di rilanciare con forza il confronto militare con l’Unione Sovietica, anche in seguito all’invasione dell’Afghanistan da parte di quest’ultima, tagliando bruscamente i trasferimenti di grano e di tecnologia verso i paesi comunisti: un intero mondo, che si è impegnato a fondo e in qualche caso ha costruito le sue fortune sul dialogo con i regimi dell’Europa dell’Est e del Terzo Mondo, entra in crisi. Non a caso, durante gli anni ottanta si assiste al declino sia della creatività artistica nei prodotti della cultura di massa che della frequenza e intensità delle azioni terroristiche. (continua)



domenica 16 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \2


L'Unione Sovietica ha bisogno di importare grano e tecnologia dall'Occidente: il grano viene venduto a prezzo di favore dagli Stati Uniti e le banche occidentali sono felici di concedere alla potenza del socialismo mondiale crediti a lungo termine che vengono regolarmente ripagati. L'URSS infatti, fino alla sua fine, ha sempre avuto un eccellente record per quanto riguarda la restituzione dei debiti contratti con le banche, potendo contare su abbondanti riserve di valuta pregiata (dollari e sterline) che le derivano dall'esportazione di materie prime pregiate come petrolio e gas. 
Come già detto, negli anni settanta tutte le grandi corporations stipulano contratti con l'Unione Sovietica per la vendita o la fornitura di tecnologia all'avanguardia, oppure per la realizzazione di impianti “chiavi in mano”, cioè completi di macchinari e attrezzatura. Nel 1974 il Congresso degli Stati Uniti approva il Trade Act, cioè una nuova legislazione sul commercio che concede al presidente in carica una sorta di binario privilegiato per negoziare accordi commerciali che il Congresso può solo approvare e disapprovare, ma non emendare. All'epoca il presidente americano era il repubblicano Gerald Ford, che il 26 marzo 1976 saluta l'accordo per la realizzazione del complesso petrolchimico nel porto di Fiume da parte della Dow Chemical con un messaggio augurale nel quale auspica “un'ulteriore intensificazione dei rapporti di collaborazione economica tra Stati Uniti e Jugoslavia”. Il Washington Post scrive che l'iniziativa “è di fondamentale importanza nel trasferimento, passo per passo, della tecnologia statunitense in uno stato del socialismo”.
Tutta la tecnologia? No, perché in realtà non tutto è liberamente trasferibile nei paesi comunisti: mentre la lista delle aziende americane disposte a cooperare con le autorità sovietiche cresce giorno per giorno il trasferimento di tecnologia militare non decolla. I colossi del settore non sembrano intenzionati a sfidare i veti governativi che, per quanto riguarda il settore strategico degli armamenti, sono ancora molto rigidi.  Il clima della Distensione, però, ha favorito ormai l'apertura di canali per il trasferimento di questo tipo di tecnologia: è sufficiente trovare il modo per aggirare l'embargo istituito dal governo americano.
La soluzione si trova con l'aiuto di uno dei paesi che fanno parte del Movimento dei Paesi Non-Allineati, un raggruppamento di nazioni del Terzo Mondo che si sono appena scrollate di dosso il dominio coloniale. Grazie alla mediazione di Tito e della Jugoslavia (e del Partito Laburista britannico), l'India si dice disposta a far giungere le armi dall'Occidente all'Unione Sovietica e a far compiere agli armamenti il percorso inverso, cioè dalla patria del socialismo ai paesi dell'Africa e dell'Asia impegnati in guerre di liberazione o in guerre civili tout-court.
Grazie a questi canali informali e privilegiati, l'Unione Sovietica diventa il primo paese esportatore di armi al mondo e incassa così un'ulteriore quantità di valuta pregiata che potrà utilizzare per ripianare il deficit della bilancia dei pagamenti. Ancora nel 1987, alla vigilia della crollo del comunismo, l'URSS risulterà esportare più armi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia messi assieme. Nel 1974 vede la luce anche il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, che alla fine degli anni ottanta darà vita agli Accordi di Basilea in materia di requisiti patrimoniali delle banche, la base per la riforma del commercio mondiale.
Ma la verità più amara, che alla fine della Guerra Fredda si ritorcerà contro la Jugoslavia, è che i paesi comunisti, per poter acquistare e vendere armi in giro per il mondo, hanno bisogno di affidarsi a mediatori d'affari che, ideologicamente, si trovano agli estremi opposti rispetto alla cultura politica del Movimento dei Paesi Non Allineati. Tanto è vero che negli anni settanta alcuni paesi, come l'Angola, verranno letteralmente fatti a pezzi da una sanguinosissima guerra civile. D'altra parte, senza i proventi derivanti dalla vendita di armi, né l'Unione Sovietica, né la Jugoslavia sarebbero in grado di pagare le forniture di tecnologia militare provenienti dall'Occidente. Quando il presidente Bush, nel quadriennio 1988-1992, rinegozierà gli accordi commerciali con un'Unione Sovietica i cui dirigenti sono ansiosi di approdare alle sponde del capitalismo, una delle condizioni imposte dal presidente americano sarà proprio che gli Stati Uniti riprendano in mano il traffico di armi mondiale: non a caso nel 1994 le statistiche sull'export di armamenti vedono il capovolgimento della situazione del 1987, con il crollo da parte della Russia e la leadership mondiale ormai saldamente in mano agli Stati Uniti. Il prezzo della riorganizzazione del mercato delle armi verrà fatto pagare, secondo un crudele contrappasso, ai popoli della ex Jugoslavia. (continua)

Nella foto Gerald Ford, presidente americano dal 1974 al 1976

venerdì 14 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \1


Nel 1975 i ministri degli esteri di Italia e Jugoslavia, Mariano Rumor e Milos Minic, siglano il Trattato di Osimo che chiude definitivamente la partita degli indennizzi agli esuli dell’Istria e della Dalmazia, nel senso che nega definitivamente agli italiani la possibilità di rientrare in possesso dei beni a loro espropriati dal regime di Tito.
Per il leader jugoslavo il Trattato è un successo che gli spalanca le porte del capitalismo internazionale: siamo nell’epoca della Distensione e pochi mesi prima, in agosto, il Trattato di Helsinki aveva sancito l’inviolabilità delle conquiste territoriali fatte dall’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale nell’Europa dell’Est. I due trattati creano le condizioni perché le multinazionali di tutto il mondo, americane e non, possano investire nei paesi comunisti esportando così tecnologia all’avanguardia, che i sovietici non sono riusciti ad acquisire neppure attraverso il canale dello spionaggio: computer e relativi componenti ( processori, memorie, semiconduttori, periferiche etc...); elettrodomestici di ogni tipo tra cui videoregistratori di ultimo modello; macchinari e attrezzature per fabbriche di automezzi; sistemi radar e componentistica elettronica allora costosissima. Tutto ciò finisce per incrementare il livello delle conoscenze degli ingegneri russi e le capacità dei lavoratori che ottengono la possibilità di essere addestrati dai dipendenti delle aziende multinazionali.
Anche in Jugoslavia, che è un po’ la sorella minore dell’Unione Sovietica, nella seconda metà degli anni settanta tutti i principali gruppi europei e americani fanno la fila per investire. Grazie ad essi, Tito intende coronare il suo sogno di rendere Fiume il primo porto dell’Adriatico, espropriando Trieste del primato storico.
Infatti, il Trattato di Osimo contiene una clausola che stabilisce la creazione di una zona franca alle spalle del porto di Trieste, una grande area industriale che dovrebbe estendersi per un terzo in Italia e per due terzi in Slovenia, con la funzione di gestire il flusso di merci in entrata e in uscita dal porto di Trieste, compresa quindi l’eventuale lavorazione, oltre che lo stoccaggio. Questa zona, che non verrà mai realizzata, nelle intenzioni dei firmatari del Trattato doveva ospitare il nuovo tessuto industriale della città triestina: in pratica, Tito intende espropriare Trieste delle sue aziende per trasferirle in Slovenia, sfruttando la remissività del governo italiano di allora, che, almeno a giudicare dalla relazione al parlamento del ministro Rumor, sembra accondiscendere al progetto del leader jugoslavo.
I cittadini di Trieste, intuendo il pericolo, si ribellano all’accordo e danno il via a una raccolta di firme, che sancirà l’inizio di un braccio di ferro protrattosi fino all’inizio degli anni ottanta. Alla fine la zona franca rimarrà solo sulla carta, ma nel frattempo la comunità internazionale si fa in quattro per aiutare la Jugoslavia a colmare il deficit della bilancia dei pagamenti che risulta perennemente in rosso. Nel 1979, ad esempio, i ministri degli esteri della CEE riescono a far approvare dalla Banca Europea degli Investimenti un prestito di 220 miliardi di lire a favore del paese balcanico. La somma viene giudicata troppo modesta dai rappresentanti del governo italiano, che dichiarano di essersi battuti invano per ottenere un trattamento più generoso e si lamentano che alla fine abbia prevalso la linea del risparmio. Ormai si parla apertamente di far entrare la Jugoslavia nella CEE.
In effetti il prestito di 220 miliardi di lire è troppo esiguo. Ma per cosa? Troppo esiguo per pagare tutte le opere che le multinazionali stanno per realizzare nei pressi del porto di Fiume per renderlo in grado di reggere la concorrenza dei grandi porti internazionali: autostrade, ferrovie, oleodotti, impianti di trasporto e di stoccaggio delle merci, svincoli ferroviari e autostradali, raffinerie e gasdotti. Il progetto prevede che Fiume diventi il collegamento tra i porti del Centro Europa e i paesi del Terzo Mondo, con i quali Tito ha stabilito da tempo legami fortissimi, anche economici, oltre che politici: i cantieri navali di Fiume hanno costruito il 40% della flotta mercantile dell’India e la totalità di quella del Sudan.
La Dow Chemicals, colosso americano della chimica, costruisce nel porto istriano un intero impianto petrolchimico; la Citroen vi apre uno stabilimento per fabbricare auto; la Fiat, che ha già inaugurato uno stabilimento in Serbia, concede alla Jugoslavia la licenza di costruire motori per le navi su un proprio brevetto.
Tutta l’economia dell’Europa Centro-Orientale viene riorganizzata per soddisfare le esigenze e le ambizioni di Tito: le merci della Cecoslovacchia, che potrebbero raggiungere comodamente i porti sul Mar Baltico, vengono inviate a Fiume via treno. E a Fiume arriva anche il petrolio dalla Libia, che un oleodotto nuovo di zecca costruito dalle multinazionali del settore trasportano verso l’Europa Centrale, accentuandone la dipendenza dalla Jugoslavia.

martedì 27 novembre 2012

Prestiti scaduti

"Che cos'è una rapina in banca paragonata alla fondazione di una banca?". Con questa citazione tratta da L'opera da tre soldi di Bertolt Brecht inizia il lungo viaggio romanzato di Petros Markaris nella crisi economica e finanziaria che travaglia la Grecia di oggi.
Il viandante che Markaris sceglie per addentrarsi nell'Ade dell'Europa contemporanea è il commissario di polizia Kostas Charitos, che nelle prime pagine del romanzo è alle prese con un lieto evento della sua vita familiare: le  nozze della figlia Caterina. Tra i commenti sull'abito da sposa, i preparativi per la cerimonia, le note dell'orchestrina che suona e la commozione dei genitori emergono i primi commenti sulla traballante situazione economica del paese e fa capolino l'ansia  dovuta alle spese sostenute in vista del lieto evento. Non si sa ancora, infatti, se il commissario Charitos e i suoi colleghi, nell'anno in corso, potranno beneficiare di una tredicesima non decurtata, come è avvenuto negli anni precedenti. 
Il giorno seguente, mentre Charitos è intento a distribuire bomboniere ai colleghi, i quali trasudano rancore verso la Merkel e verso l'Unione Europea, irrompe la notizia dell'omicidio di un banchiere, decapitato con una spada nel giardino di casa sua. Il banchiere aveva stretti legami con gli ambienti della finanza internazionale, pertanto il commissario, sollecitato dai suoi superiori perché giunga velocemente alla soluzione del caso, è costretto a immergersi anima e corpo nelle indagini. 
Da qui in avanti la trama del libro sarà scandita dai contorcimenti e dalle convulsioni dell'infinita crisi greca: le manifestazioni di piazza contro il governo, gli scontri con la polizia, i racconti disperati di chi è stato rovinato dalla crisi e la preoccupazione di chi, nonostante i benefici ottenuti in passato, teme comunque di essere risucchiato nello strato sempre più ampio dei senza lavoro e senza prospettive.
L'ironia disincantata di Charitos coglie alla perfezione le contraddizioni causate dalle politiche economiche applicate dai passati governi: i finanziamenti concessi con generosità dagli organismi internazionali e accettati senza troppo riflettere, pur avendo favorito la modernizzazione del paese, hanno provocato nella popolazione, anche nelle fasce più istruite e professionalmente preparate, uno sbandamento morale e culturale frutto della rassegnazione di fronte a eventi che appaiono come impossibili da controllare e da gestire.
In alcuni passaggi del romanzo si ha veramente l'impressione che la Grecia di oggi sia un paese senza direzione e senza meta, una nave in balia delle onde, sballottata impietosamente dalle fluttuazioni della finanza internazionale e la cui classe dirigente, privata ormai della possibilità di riprendere il comando, pensa solo a mantenere inalterati i propri privilegi anche a costo di buttare a mare il resto dell'equipaggio, come se fosse un inutile peso morto. 
In un caos dal sapore tipicamente mediterraneo, cioè non privo di una certa saggezza di fondo, si snoda l'indagine del commissario Charitos, mentre gli omicidi si susseguono, la rabbia contro le banche rischia di sfociare in rivolta aperta e i suoi colleghi della sezione Antiterrorismo cercano strenuamente di indirizzare i sospetti verso una presunta e fantomatica cellula di terroristi islamici.
Il grande merito del libro è che, alla fine, la soluzione del mistero, oltre a svelare il colpevole, fornirà un'interpretazione acuta e brillante della crisi greca e della disperata mediocrità del mondo di oggi.

mercoledì 14 novembre 2012

Armi, un affare di stato

Il libro, edito da Chiarelettere, parte in maniera promettente con un'analisi dettagliata dell'escalation delle spese militari avvenuta in Italia, in Europa, negli Stati Uniti e nell'intero pianeta durante l'ultimo ventennio. Gli autori portano a sostegno della loro tesi dati largamente attendibili che dimostrano come la riorganizzazione del settore militare nel mondo post-Guerra Fredda abbia assorbito ingenti risorse dei bilanci nazionali, sottraendole a settori importanti della vita civile, come i servizi sociali e l'educazione scolastica.
Peccato che poco o nessuno spazio venga dedicato alla disamina dei processi storici che hanno favorito la nascita e lo sviluppo di un gigantesco apparato militare negli Stati Uniti e in Europa, e di come questo apparato sovvenzionato da fondi pubblici sia stato in grado di sopravvivere alla fine del confronto con l'Unione Sovietica e di riprodursi in un'epoca nella quale la democrazia trionfante avrebbe dovuto procedere al suo smantellamento.
I tre autori, Duccio Facchini, Michele Fasso e Francesco Vignarca, si guardano bene dall'indagare le ragioni del persistere di questo perenne stato di vigilanza armata che ormai domina inesorabilmente i rapporti tra i paesi del mondo che dispongono di un patrimonio tecnologico all'avanguardia e le altre nazioni meno sviluppate sul piano economico, destinate spesso a fare da ricettacolo e da smaltimento della produzione bellica, con costi umani, politici e sociali smisurati.
Viene citato, con ragione, il caso dell'intero continente africano dove da decenni imperversano le guerre civili e nel quale, grazie al continuo rifornimento di armi provenienti dal nord del pianeta, gruppi di miliziani locali sono riusciti a imporre il proprio dominio su milioni di persone utilizzando una politica di sistematica violazione dei diritti umani. Esemplare è il caso del Darfur, la regione meridionale del Sudan ricca di petrolio i cui abitanti, che vorrebbero l'indipendenza, si trovano sottoposti da quindici anni alle incursioni di milizie armate appoggiate dal governo sudanese. Nel 2000 il conflitto, secondo cifre dell'Onu, aveva prodotto già 400.000 morti.
Anche l'Italia, nonostante sia, o debba essere, parte dei paesi più avanzati, e nonostante si trovi in perenne difficoltà finanziaria, investe quantità ingenti di denaro per la costruzione o l'acquisto di armamenti non solo inutili, ma il cui costo aumenta in corso d'opera senza alcun controllo: è il caso della portaerei Cavour, il cui costo di costruzione è lievitato in continuazione anche per effetto dell'assenso che il Parlamento italiano ha concesso al progetto prima ancora di avere tutti gli elementi a disposizione per valutarne la complessità e il costo definitivo. Oppure, ancora, del famigerato F-35, un progetto della Lockheed per la costruzione di un aereo in grado di trasportare ordigni nucleari, con un sistema di comando computerizzato interamente progettato dagli ingegneri americani e quindi accessibile solo a loro. Il che rappresenta anche uno smacco per la nostra sovranità militare, visto che il velivolo non potrà mai essere usato contro gli Stati Uniti, ma solo a fianco di essi.
Oltre all'esauriente descrizione delle attività del gruppo Finmeccanica in paesi dal pedigree democratico molto scarso quali Libia, Siria o Egitto; oltre alla trattazione delle tecniche utilizzate dai trafficanti per eludere i controlli delle dogane e della corruzione che regna nel sistema degli appalti internazionali, nel quale è impossibile muoversi per qualsiasi azienda senza pagare mazzette a qualche alto esponente militare, va segnalato il capitolo che descrive la commistione tra politica e mercato delle armi, con particolare riferimento al ruolo ambiguo dei vertici militari, molti dei quali, una volta andati in pensione, vengono arruolati come consulenti dalle stesse aziende produttrici di armamenti.
Tutto ciò è molto interessante e merita di essere letto, anche se sconcerta la quasi totale assenza di riferimenti al ruolo svolto dai grandi fondi di investimento pubblici, come quello norvegese, nella riorganizzazione dell'intera filiera delle armi. Stupisce anche come, nella descrizione dei sanguinosi conflitti scatenati dall'avidità rapace dell'industria degli armamenti e delle banche che la sovvenzionano, non compaia quello avvenuto nella ex-Jugoslavia, che ha fatto da ponte tra il mondo dei vecchi e possenti apparati militari usciti dalla seconda guerra mondiale e quello attuale, dominato da organizzazioni altamente specializzate, molto più flessibili e dinamiche.
Ma quello che stupisce è soprattutto il finale: dopo aver letto una vagonata di dati e di cifre agghiaccianti riguardo ai costi umani della moderna produzione bellica e all'enormità delle somme sottratte alla collettività, il lettore si aspetta dagli autori un'invocazione furente e sdegnata in favore dello smantellamento dell'industria militare, o quantomeno del taglio di un buon 50% dei finanziamenti pubblici ad essa destinati.
Invece il saggio si conclude con la sommessa richiesta di una misera riduzione del 5% delle spese militari al fine di "liberare risorse preziose per la collettività senza penalizzare troppo i produttori di armi": la preoccupazione di non danneggiare le aziende produttrici di armi, dopo tutto quanto hanno scritto i tre autori nel corso del libro, lascia veramente sconcertati ed è la chiara dimostrazione, a mio avviso, di quanto il "business della morte" si sia radicato in profondità nella nostra economia e nella nostra società, e di come sia difficile parlarne in maniera esauriente e completa, al di là delle buone intenzioni.

giovedì 18 ottobre 2012

I diritti umani nella seconda repubblica

Circa una settimana fa, il 10 ottobre, il Presidente della Serbia, Tomislav Nikolić, in carica solo da pochi mesi, è stato ricevuto al Quirinale dal suo omologo e nostro Presidente Giorgio Napolitano. Un servizio trasmesso dal Tg2 sull'incontro mostrava Nikolić affermare energicamente che "a Srebrenica non è avvenuto alcun genocidio" e Giorgio Napolitano, invece di zittirlo, si affannava invece a sottolineare con entusiasmo gli ottimi rapporti di amicizia esistenti tra Italia e Serbia. Il Presidente serbo rincarava la dose ironizzando su quegli italiani (cioé quasi tutti) che hanno contestato la decisione di Marchionne di portare gli stabilimenti in Serbia dopo aver preso vagonate di soldi dal governo italiano: se questo avviene è perché la Fiat trova nel nostro paese condizioni migliori per investire, ha spiegato Nikolić. Se le avesse trovate in Italia, avrebbe mantenuto gli stabilimenti in Italia (per inciso Nikolić la scorsa primavera ha presenziato a Ginevra all'inaugurazione della nuova Cinquecento, dietro invito di Marchionne).
Il servizio del Tg2 a questo punto mostrava agli esterrefatti ascoltatori, almeno io lo ero, un sempre più entusiasta Giorgio Napolitano auspicare caldamente l'ingresso della Serbia nell'Unione Europea, entità che ha appena ricevuto il Nobel per la Pace dai petrolieri e dagli armatori norvegesi.

Per quanto riguarda le condizioni di lavoro degli operai serbi che lavorano negli stabilimenti Fiat vi rimando a quest'articolo apparso sul giornale di Marco Travaglio. Per quanto riguarda invece l'incontro tra Napolitano e Nikolić, oltre alla pagina ufficiale del sito web del Quirinale con il video di parte della conferenza stampa, i principali quotidiani e agenzie di stampa online hanno riportato solo resoconti piuttosto stringati, nei quali sono state ignorate del tutto le dichiarazioni del Presidente serbo sull'eccidio di Srebrenica. 

L'impressione, molto inquietante, è che in questo paese esista una volontà omertosa, da parte di tutti i mezzi di informazione, di coprire le malefatte del Presidente della Repubblica, perché ormai esiste la consapevolezza che di quelle malefatte, negli anni novanta del secolo scorso, sono stati corresponsabili un numero altissimo di politici italiani, di destra e di sinistra, impegnati a riciclarsi o a rimanere a galla dopo il naufragio del comunismo e la riorganizzazione generale che ne è seguita. Oltretutto, Giorgio Napolitano è un politico scafatissimo ed è probabile che la sua strategia di dare un colpo al cerchio e uno alla botte gli abbia accattivato le simpatie di una schiera molto ampia di "stakeholders".
Ho spiegato, in altri articoli, per quale motivo il capitalismo internazionale voleva la distruzione della Jugoslavia, dopo averla sovvenzionata e nutrita per tutta la Guerra Fredda: quella guerra civile, tra le altre cose, ha dato la possibilità a molte aziende pubbliche, tra cui la nostra Finmeccanica, di ristrutturarsi investendo nella produzione di armamenti ad alto livello tecnologico.

Nel 2007 la Corte Internazionale di Giustizia dell'Onu ha prosciolto la Serbia dall'accusa di complicità nel genocidio avvenuto in Bosnia-Erzegovina dal 1992 al 1995, compresi gli eccidi di Srebrenica. Secondo il magistrato Carla Del Ponte, che è stato Procuratore Capo nel tribunale istituito dall'Onu per giudicare i crimini di guerra nella ex Jugoslavia, esistono centinaia di documenti, da lei visionati personalmente, che provano chiaramente il ruolo giocato dalla Serbia nella guerra in Bosnia: si tratta, in gran parte, di verbali di riunioni tra leader politici e militari jugoslavi in tempo di guerra, il Consiglio Supremo di Difesa.
Secondo il magistrato svizzero, i verbali del Consiglio Supremo di Difesa forniscono la prova inconfutabile che la Serbia ha diretto lo sforzo bellico delle truppe serbe in Bosnia-Herzegovina, spiegando fin nel dettaglio in che modo Belgrado finanziava e alimentava i serbi di Bosnia. I documenti dimostrano che le forze serbe hanno contribuito alla presa di Srebrenica e al massacro dei suoi abitanti. Esiste persino un video, disponibile su YouTube, che mostra i membri di un'unità paramilitare nota come gli Scorpioni, affiliata al ministero degli Interni serbo, mentre conducono sei giovani prigionieri su un'altura e li ammazzano due alla volta, sparandogli nella schiena. Il video è stato incluso anche nel documentario di Roberta Biagiarelli, "Souvenir Srebrenica", ed è stato proiettato nell'aula del Tribunale durante il processo a Milosevic.

La Serbia ha ottenuto dal Tribunale per la Jugoslavia che le sezioni più critiche di tali documenti venissero tenute segrete all'opinione pubblica, ma i giudici della Corte Internazionale avrebbero potuto prenderne visione ugualmente, se avessero voluto. Gli avvocati che presentavano il caso della Bosnia avevano chiesto alla Corte di imporre alla Serbia la consegna di una versione incensurata dei documenti, ma i giudici si sono rifiutati di farlo affermando che avevano già a disposizione "prove abbondanti".

La decisione di assolvere la Serbia, secondo Carla Del Ponte, è stata ispirata dalla volontà politica dell'allora amministrazione Bush di far entrare il paese balcanico nella Partnership for Peace, un programma di cooperazione militare fra gli stati europei che prelude all'ingresso nella NATO.

La benevolenza con la quale gli organismi internazionali hanno trattato la Serbia negli ultimi anni lascia sconcertati: secondo Osservatorio Balcani e Caucaso, dal 2000 al 2011 l’UE ha donato al paese del Presidente Nikolić oltre 4 miliardi di euro, prima davanti alla Germania con 700 milioni e agli USA con oltre 500 milioni. Per non parlare poi delle grandi aziende: a parte la Fiat di Marchionne, la U.S. Steel, colosso americano dell'acciaio con sede a Pittsburgh, nel 2003 comprò lo stabilimento di Smederevo e vi investì milioni di dollari per dare lavoro a 5.500 operai e trasformarlo nel maggiore esportatore del paese balcanico. Nel 2010 l'impianto incideva per circa il 10% sulle esportazioni serbe, con vendite all’estero per 27 milioni di euro, prima che la crisi economica costringesse gli americani a svenderlo al governo serbo per la cifra simbolica di un dollaro.

Visto tutto ciò, l'entusiasmo dimostrato da Napolitano per la visita di Nikolić mi lascia in balia del tetro presagio che il nostro paese stia per essere investito da una valanga di fango e di merda che farà impallidire il ricordo di Tangentopoli.

domenica 14 ottobre 2012

Gli assassini di Cristo - Ivo Tiberio Ginevra

Nell'immaginario comune di Scrafani, in Sicilia, accade che un gruppo di folli facciano irruzione nelle chiese e distruggano a colpi di mazza statue e simboli sacri.
Le indagini vengono affidate a due esponenti del locale commissariato, il commissario Mario Falzone e il vice-questore Pietro Bertolazzi, entrambi appena raggiunti da un ordine di trasferimento verso sedi remote a causa di dissapori e dissidi con i propri superiori. I due si gettano a capofitto nell'indagine nella speranza che la felice soluzione del caso possa attirar loro le simpatie dei vertici ecclesiastici e evitare così l'ingrato trasferimento lontano da Scrafani.
Uno dei due in particolare, il commissario Falzone, vive una situazione personale resa problematica dal recente divorzio, aggravata dalla difficoltà a versare alla moglie regolarmente  gli alimenti e dalla conseguente rappresaglia da parte di lei, che consiste nel rendere difficoltosi i rapporti dell'ex marito con i figli.
L'autore, Ivo Tiberio Ginevra, è un esperto ornitologo che nel tempo libero coltiva la passione dei romanzi gialli. Tra l'altro, una delle peculiarità de "Gli assassini di Cristo" è proprio quella di derivare i nomi dei luoghi e dei protagonisti dal mondo degli uccelli. In fondo al libro l'autore ha aggiunto un piccolo dizionario che spiega l'origine dei nomi utilizzati, con tanto di etimologia ornitologica.
"Gli assassini di Cristo" è un thriller molto particolare, dall'andatura lenta e intensa allo stesso tempo, dovuta al rapporto serrato e nevrastenico che intercorre tra i due protagonisti, entrambi impegnati in una corsa contro il tempo per evitare il trasferimento. Le vicende personali di Mario Falzone e Pietro Bertolazzi, però, non prendono mai il sopravvento sulla trama del romanzo: la ricerca della verità e la tensione investigativa rimangono sempre a dettare ritmi e tempi della narrazione. L'ironia, le battute amare e gli scherzi da caserma tra i due colleghi non oscurano mai il senso principale della loro azione che è quello di trovare la verità, obiettivo che, nonostante alcuni momenti di surrealismo tipicamente pirandelliano, rimane comunque al centro dei loro pensieri come qualcosa di precisamente individuabile e definibile: la possibilità di una lotta vittoriosa contro l'ingiusto da parte del giusto è sempre al centro delle motivazioni del commissario Falzone, che non a caso rifiuta più volta l'offerta di aiuto da parte di un amico primario per evitare il tanto temuto trasferimento, fiducioso com'è nel trionfo finale della sua opera.
Conciliare il ritmo di dialoghi brillanti e densi d'ironia con la tensione narrativa è un'operazione non banale, nella quale alcuni autori, anche molto celebrati, finiscono spesso per perdersi, provocando una sfilacciatura del racconto che porta il lettore a perdere di vista la ragione principale delle azioni dei protagonisti e a sprofondare, di conseguenza, in una sensazione di irritante noia. Ivo Tiberio Ginevra, al contrario, riesce a rappresentare i sentimenti personali dei due poliziotti del commissariato di Scrafani senza mai scadere nel trito e nel banale.
"Gli assassini di Cristo" è un romanzo ben costruito, con una trama avvincente e una soluzione finale non scontata, anche se, per essere compreso e apprezzato fino in fondo, vista la complessità dei temi trattati, richiede, a mio avviso, una seconda lettura.

sabato 22 settembre 2012

Come sopravvivere al lavoro ed essere felici

Ho pescato per caso questo libro in un autogrill, diretto verso un fine settimana di relax in riva al mare, sperando di garantirmi alcune ore di piacevole lettura sdraiato sotto l'ombrellone. Ho dovuto constatare, con sorpresa, che "101 modi per liberarti dagli stronzi e trovare soddisfazione sul lavoro" non è solamente piacevole, ma tratta in maniera approfondita ed esauriente le difficoltà che insorgono in un ambiente lavorativo a intrattenere rapporti umani, ogniqualvolta si affaccia all'orizzonte qualcuno che ha la ferma intenzione di avvelenarli con il proprio comportamento di stampo teppistico.
Luca Stanchieri è uno psicologo che svolge da vent'anni attività di consulente e formatore verso aziende e organizzazioni in generale, sia del settore pubblico che di quello privato. In questo volume, edito da Newton Compton, ha raccolto 101 casi di disagio lavorativo tratti dalla sua esperienza personale, maturata a contatto con un'ampia gamma di professioni (dai medici agli insegnanti, dagli agenti di commercio agli informatici, dagli imprenditori agli infermieri, fino ai telefonisti, ai consulenti della formazione e persino ai disoccupati) e di ambienti di lavoro (ospedali, scuole, aeroporti, beauty farm, agenzie immobiliari etc...).
Il filo conduttore dei casi narrati è come fare fronte al deterioramento dei rapporti umani quando siamo costretti a convivere per diverse ore al giorno con persone che non abbiamo scelto: "Il capo stronzo rende la vita impossibile, il cliente stronzo ti rovina la giornata, il collega stronzo ti irrita;[...] Supponenza, diffidenza, controllo, aggressività, invasività, presunzione, arroganza e, perché no, idiozia: la stronzaggine è un fenomeno relazionale che sembra avere il proprio luogo di elezione nel posto di lavoro. Questo libro si pone l'obiettivo di riconoscere e riassumere gli atteggiamenti e i comportamenti tipici di questa categoria e offrire mezzi di tutela e difesa."
Un manuale di autodifesa da coloro che tentano di avvelenarci la vita mentre svolgiamo l'attività essenziale per vivere, introducendo stress, tensione e aggressività al solo scopo di rompere l'armonia delle relazioni, rendendo immensamente frustrante lo svolgimento delle mansioni che ci consentono di guadagnarci il necessario.
Lo Stronzo Infinito, o SI, si può annidare ovunque: può essere un collega, un manager o un consulente esterno, oppure qualcuno capace di proporsi in maniera accattivante per conquistare la nostra simpatia e la nostra fiducia, ma con l'intenzione, sempre e comunque, di "intervenire nelle relazioni sociali in modo da creare profondo malessere e insoddisfazione alle proprie vittime."  Spesso riuscendoci, purtroppo, perché il lavoratore coscienzioso che pensa solo a svolgere al meglio il proprio lavoro per trarne la maggior soddisfazione possibile, oltre che lo stipendio, una volta che viene "toccato" dalla bacchetta magica (in senso inverso) dell'SI finisce inevitabilmente per cadere nella sua spirale di negatività, guastandosi così l'esistenza.
Ci sono naturalmente alcuni accorgimenti per evitare le trappole tese da coloro che spesso riversano nell'ambiente di lavoro il bagaglio di fallimenti e delusioni della propria vita privata, la cui personalità è segnata spesso da carenze sul piano psicologico e affettivo. Il libro ne è pieno e anche se parecchi di questi accorgimenti sembrano solo dettati dal buon senso (tentare di dare un senso positivo alle attività che si svolgono, coalizzarsi con gli altri colleghi per fare fronte al "nemico" comune etc...) chi ha sperimentato il disagio generato da un SI sa bene quanto sia difficile applicarli e quanta fatica costi sottrarsi allo stress indotto da questo genere di persone, che ci costringono a sottrarre energie che dedicheremmo volentieri al lavoro e alla vita organizzativa.
L'importante è non farsi prendere dal pessimismo, cercare di cogliere comunque le opportunità che ci si presentano e non cedere alla tentazione di scontrarci apertamente con l'SI di turno, perché anche mandandolo a quel paese come si merita finiremmo per liberare una carica di energia negativa che si spanderà per tutto l'ambiente, peggiorando la situazione (in certi casi è comunque inevitabile farlo).
Il lavoro è una necessità e svolgerlo al meglio può comportare delle gratificazioni molto piacevoli, purché ci si sforzi di mantenerlo inquadrato in un contesto nel quale esso rappresenta solo una delle componenti che contribuiscono alla nostra felicità generale. Ciò che non si deve fare è trasformarlo in una sorta di religione, nella quale gli adepti sono dei fanatici aspiranti al martirio che rinunciano alla propria vita privata non perché siano più bravi e volenterosi degli altri ma perché, semplicemente, sono incapaci di coltivare affetti, passioni e rispetto per se stessi. Chi rinuncia alla propria vita per il lavoro lo fa solo perché la vita privata è troppo avara di soddisfazioni per dedicarvisi e tenta di affogare l'infelicità annullandosi nello stress lavorativo.

venerdì 10 agosto 2012

La gatteria di piazza delle erbe

Nell'Antico Egitto i gatti erano considerati animali sacri, con proprietà e caratteristiche che li  rendevano del tutto simili alle divinità mitologiche. Se ne veniva ucciso uno, anche accidentalmente, il responsabile doveva essere punito con la morte. In caso di incendio, il gatto doveva essere messo in salvo prima di ogni membro della famiglia e degli oggetti che si trovavano nella casa. Quando un gatto moriva, per le persone ad esso legate cominciava un lungo periodo di lutto e siccome gli Egizi credevano che anche per i felini esistesse l'aldilà, li mummificavano e li seppellivano con tanto di funerale, assieme al cibo necessario a sopravvivere alla traversata verso il mondo dei morti.
Per gli antichi Egizi il gatto era associato, tra l'altro, al culto di Iside, la dea che aveva il proprio regno nella notte, che è il tempo del riposo per gli esseri umani e dell'azione per gli animali, quando la natura si anima di presenze e di movimenti misteriosi e segreti, legati al culto della fertilità e della dea madre. Con l'avvento del cristianesimo, però, le cose cambiarono: i culti pagani vennero cancellati o addirittura estirpati, nei casi in cui non fu possibile assimilarli. Molti antichi dei divennero demoni, creature maligne da combattere, Iside per prima. E il gatto nero, suo tradizionale alleato notturno, seguì lo stesso destino, diventando nell'immaginario popolare un essere maligno e pericoloso, addirittura menagramo, fino a essere bruciato assieme alle streghe, nel Medio Evo.
Beatrice Nefertiti, lo si intuisce anche dal nome d'arte, condivide per i gatti la stessa passione spinta fino all'adorazione sacrale che era propria degli Antichi Egizi. Per esaltare le qualità dei felini ha scritto un libro di racconti intitolato "La gatteria di Piazza delle Erbe", edito da Anguana Edizioni, che narra le vicende di due comunità di gatti: un gruppo di "regolari", cioè risiedenti presso famiglie, che si ritrovano però nella piazza, all'ombra dei tigli o sotto i banchi del mercato di frutta e verdura, e un secondo gruppo di randagi che hanno eletto a loro rifugio un giardino chiuso al pubblico nei pressi del palazzo della Prefettura. Tra tutti i felini, di varia indole, lignaggio e provenienza, spicca Merlino, il gatto samurai, che un giorno fa la conoscenza di una signora triste e dimessa, sposata ad un marito altrettanto triste e dimesso. Incuriosito dalla pietosa condizione dei due umani, Merlino cerca di capire che cosa li abbia ridotti in quella condizione e sente così pronunciare per la prima volta la parola "lavoro". Così una mattina Merlino segue la poveretta e scopre il luogo nel quale trascorre le sue giornate: un palazzo dove "nei secoli, tante persone sono state prigioniere, hanno subito torture, sono morte". Insomma un luogo di pena e di dolore per la nostra sventurata che viene vessata in continuazione dai suoi superiori che la vogliono costringere ad andarsene, cosa che lei non può fare perché le hanno spostato a tradimento in avanti l'età della pensione e se molla quel lavoro, muore di fame. Il gatto samurai parla della triste sorte della loro amica agli altri gatti e tutti insieme decidono di aiutarla, ordendo raffinate trame per punire i suoi aguzzini. Ne nascono una serie di avventure rocambolesche nel corso delle quali i generosi gatti di Piazza delle Erbe riescono a infliggere una serie di clamorosi rovesci agli umani che lavorano nel "palazzaccio", liberando finalmente la loro amica umana dall'oppressione e dandole così soddisfazione delle tante umiliazioni subite.
La Gatteria di Piazza delle Erbe è un'opera tenera e dolce, piena di ironia e di affetto per il mondo dei felini, un mondo trattato a volte con disprezzo da esseri umani che hanno perso il senso e la considerazione per i valori fondamentali dell'esistenza, afflitti e ingrigiti come sono da una realtà lavorativa piatta e disumanizzante, nella quale credono di trovare la loro realizzazione e che, al contrario, finisce solo per spossessarli dei loro istinti vitali. Così, a volte è bello chiudere gli occhi e credere di esser parte di una comunità di gatti che crede ancora nella fiducia e nell'affetto per gli altri, con la convinzione che insieme si possa affrontare qualsiasi pericolo, superare ogni ostacolo e che sia possibile condividere sentimenti di fratellanza e di solidarietà senza timore di essere traditi o pugnalati alle spalle. 

martedì 10 luglio 2012

Let me please introduce myself \4

Gli stabilimenti delle aziende tedesche nella Germania occupata dall'Armata Rossa vennero confiscati e nazionalizzati. La divisione delle due Germanie contribuì al relativo indebolimento del potenziale produttivo tedesco e favorì il tentativo, da parte dei governi vincitori della guerra, di metterne sotto controllo politico la produzione industriale. Naturalmente, tale controllo era possibile solamente attraverso una coalizione che mettesse insieme tutti i paesi vincitori, a prescindere dal reale contenuto politico dei loro regimi. Era la cosiddetta "coalizione antifascista" la quale, per oltre quaranta anni, cercò di controbilanciare il potere del capitalismo industriale e finanziario che aveva sostenuto il Nazionalsocialismo facendo leva sul fatto che ora una grossa fetta delle materie prime necessarie alla produzione e allo sviluppo economico dell'Occidente proveniva da paesi nei quali era lo Stato, e quindi il Partito Comunista, a detenerne il controllo. Questo vale sia per l'Unione Sovietica che per la stragrande maggioranza dei paesi del Terzo Mondo che, nel giro di pochi anni, si scrolleranno di dosso il dominio delle potenze coloniali e diverranno indipendenti.
L'occupazione tedesca, però, non aveva favorito solo la concentrazione delle aziende nei settori chimico-farmaceutico e siderurgico, ma aveva anche promosso nei posti chiave della pubblica amministrazione dei paesi occupati uomini graditi al regime nazista. Molto spesso si trattava di persone non iscritte al partito, o comunque non impegnate in politica, ma con una visione del mondo strettamente affine a quella promossa dai gerarchi del Terzo Reich. In alcuni post precedenti ho fatto riferimento a Kare Kristiansen, che negli anni ottanta, dal 1983 al 1986 per la precisione, ricoprì la carica di Ministro del Petrolio in Norvegia. Kristiansen era un cristiano conservatore, affiliato alla Chiesa Luterana Norvegese, che iniziò la sua carriera lavorativa nelle Ferrovie di Stato giusto un paio di mesi dopo che le truppe tedesche avevano occupato il paese. Come lui, tanti altri hanno fatto ingresso nei settori chiave dei trasporti, dell'industria, delle banche e della pubblica amministrazione proprio negli anni in cui l'Europa era sotto il dominio nazista. Una volta terminata la guerra questi uomini sono rimasti ai loro posti, sfuggendo a qualsiasi tipo di epurazione e, lentamente, hanno salito tutta la scala gerarchica fino ad arrivare, negli anni ottanta del secolo scorso, ai vertici dei loro settori di appartenenza. Questi personaggi sono stati i grandi protagonisti della svolta antisindacale promossa da Reagan e dalla Thatcher negli anni ottanta e in seguito, una volta crollato il comunismo in Russia e negli altri paesi dell'Europa dell'Est, hanno preso in mano le redini della riorganizzazione dell'economia internazionale, con la decisa intenzione di punire i paesi che per oltre quarant'anni avevano tenuto in scacco l'Occidente cristiano.
Sono sicuro, ad esempio, che i funzionari della Banca per la Ricostruzione Internazionale che nel 1988 definirono i criteri degli accordi di Basilea furono gli stessi che, entrati da giovani nell'istituto, si erano adoperati assieme all'allora governatore della Banca d'Inghilterra, Norman Montagu, e al presidente della Banca Centrale tedesca, Hjialmar Schacht, per riciclare il denaro depredato agli ebrei e alle popolazioni civili dei paesi conquistati, trasferendo sui conti correnti della Reichsbank le riserve auree della Cecoslovacchia.
Gli accordi di Basilea, come è noto, stabilirono criteri più restrittivi riguardo ai requisiti patrimoniali delle banche che intendevano operare sui mercati internazionali, imponendo di accantonare almeno l'8 per cento del capitale prestato, non investibile in nessun altra attività di qualsiasi tipo, al fine di garantire "solidità e fiducia nel sistema creditizio".
Questa decisione costituì una sentenza di morte per quei paesi, come la ex-Jugoslavia, che negli anni della Guerra Fredda avevano fortemente beneficiato dei prestiti concessi con generosità dalle banche tedesche e italiane grazie al ruolo politico svolto dal proprio governo, ma che ora non avevano alcuna possibilità di diminuire la propria massa debitoria se non concorrendo, con una cruenta guerra civile, alla riorganizzazione su scala mondiale delle aziende produttrici di armi, nelle quali proprio in quegli anni il Fondo Petrolifero Norvegese investì in maniera massiccia. Tutte le banche che si erano impegnate, per motivi politici, a prestare denaro al paese balcanico furono costrette, per rispettare le nuove regole imposte dalla BIS, a far rientrare i capitali prestati, pena l'esclusione dai mercati internazionali. Così, visto che la Jugoslavia non possedeva materie prime e la sua economia non sarebbe mai stata in grado di produrre beni a sufficienza per restituire le somme avute a prestito, il ruolo che le fu assegnato dalla comunità d'affari internazionale, erede del Nazionalsocialismo, fu quello di fungere da agnello sacrificale per la costruzione della nuova Europa. (continua)

mercoledì 4 luglio 2012

Let me please introduce myself \3

Il processo ai dirigenti dell'IG Farben iniziò nel dicembre 1947, assieme a quello ai dirigenti dei gruppi Flick e Krupp, specializzati nei settori minerario, siderurgico e degli armamenti. Tutti furono accusati di avere perpetrato crimini contro l'umanità, contribuendo non solo alla preparazione delle guerre di aggressione di Hitler, ma anche allo sfruttamento del lavoro forzato di milioni di prigionieri, provenienti soprattutto dai paesi dell'Europa dell'est, e al saccheggio e alla spoliazione dei beni della popolazione civile, beni confluiti in larga misura nelle casseforti della Banca per i Regolamenti Internazionali di Basilea.
La Banca per i Regolamenti Internazionali (Bank of International Settlements, BIS) aveva sostituito la commissione creata dai paesi vincitori della Prima Guerra Mondiale per risolvere il problema delle riparazioni di guerra dovute dalla Germania secondo il trattato di Versailles. Nel 1932 Inghilterra e Francia si erano dette disposte a rinunciare alle riparazioni purché gli Stati Uniti cancellassero i pesantissimi debiti che esse avevano dovuto contrarre per portare avanti lo sforzo bellico. Il congresso degli Stati Uniti votò contro a questa proposta, spingendo di fatto l'Europa e il mondo verso la Seconda Guerra Mondiale, visto che a questo punto l'unica possibilità per le nazioni europee di onorare i loro impegni sarebbe stato dare vita a una nuova guerra mondiale che rilanciasse su grande scala l'economia americana stimolandone la produzione bellica e riempisse le casse ormai vuote delle banche con i beni depredati alle popolazioni civili durante il conflitto.

Così come era avvenuto al termine della Prima Guerra Mondiale, quando le necessità della ricostruzione furono sostenute dalle imprese nazionali produttrici di armi, le uniche a disporre di grande liquidità, la Seconda Guerra Mondiale ebbe l'effetto di trasferire una massiccia quantità di denaro oltreoceano, grazie anche al fatto che le filiali europee delle banche americane, come la National Chase e la J.P.Morgan, offrirono agli ufficiali della Gestapo la possibilità di aprire conti correnti sui quali trasferire il denaro prelevato ai correntisti di origine ebraica, ai quali le stesse banche rifiutarono la possibilità di ritirare i loro beni, persino prima che le autorità occupanti emanassero un decreto in tal senso.
Adolf Hitler capì al volo che l'inflessibile avidità del capitalismo internazionale gli avrebbe offerto l'opportunità per dare libero sfogo al suo odio verso gli ebrei, i comunisti, i francesi e il resto del mondo, compresi gli italiani e, pur consapevole di avere pochissime possibilità concrete di vincere la guerra, vista la sproporzione delle forze in campo, vi si gettò a capofitto trascinando la Germania e il popolo tedesco in un'impresa autodistruttiva, della quale gli unici a beneficiare furono i tre grandi gruppi industriali finiti sotto processo a Norimberga. IG Farben, Flick e Krupp, infatti, ebbero l'opportunità di assorbire le migliori industrie dei paesi occupati dalle truppe del Reich e di concentrare nelle loro mani gran parte della produzione industriale europea. Dopo la guerra, molti dei loro dirigenti, pur essendo stati condannati per crimini contro l'umanità, vennero rimessi in libertà quasi subito e tornarono ai loro posti di comando. Le industrie conservarono  intatte le proprietà acquisite negli anni precedenti grazie alle leggi razziali, che costrinsero molti ebrei a svendere le loro attività per quattro soldi.
Karl Wuster, dirigente della Degesch, la ditta che produceva il veleno usato nelle camere a gas, divenne capo esecutivo del gruppo BASF. Fritz ter Meer, dirigente della Bayer e della IG Farben, condannato a Norimberga per genocidio e sfruttamento degli internati del campo di Auschwitz, venne rilasciato dopo soli quattro anni e tornò a presiedere il consiglio di amministrazione della Bayer.
Hans Globke, co-autore delle leggi razziali e zelante sostenitore della loro applicazione, prima in Germania e poi nelle terre occupate dalle armate del Reich, divenne uno dei più stretti collaboratori del cancelliere Adenauer, nell'immediato dopoguerra. Anche Walter Hallstein, avvocato e professore universitario, contribuì alla formazione delle leggi per "la protezione del sangue e dell'onore tedesco": dopo la fine della guerra venne messo, sempre da Adenauer, a capo della delegazione tedesca incaricata di negoziare il Piano Schuman e nel 1958 fu nominato primo presidente della Commissione della Comunità Economica Europea, oggi Commissione Europea, il braccio esecutivo dell'Unione Europea, ideata da lui stesso per governare l'Europa fuori da qualsiasi controllo popolare e democratico. (continua)
Walter Hallstein, primo presidente della Commissione Europea

domenica 1 luglio 2012

Let me please introduce myself \2

Nel periodo 1933-45, il consiglio di amministrazione della BIS (Bank for International Settlements) comprendeva Walther Funk, un esponente del Partito Nazista che fu anche Ministro per gli Affari Economici dal 1937 al 1945, e Emil Puhl, un banchiere filo-nazista che, oltre a essere vicedirettore della Banca Centrale tedesca, fu anche direttore della stessa BIS durante la Seconda Guerra Mondiale e svolse un ruolo di primo piano nella gestione dell'enorme quantità di oro confiscato dai nazisti alle popolazioni civili nei paesi occupati. 
La Germania, già dal 1937, era rimasta a corto di valuta straniera e non era pertanto in grado di finanziare uno sforzo bellico che si preannunciava lungo e costoso. Così nacque l'idea di depredare i beni delle popolazioni di Austria, Cecoslovacchia e della città di Danzica, le tre zone occupate all'inizio del conflitto. Il totale raccolto solo nel biennio 37-39 fu di 71 milioni di dollari del tempo. Le acquisizioni furono mascherate dalla Banca Centrale tedesca all'opinione pubblica internazionale sottostimando le riserve auree in proprio possesso, grazia alla complicità dei funzionari della Banca d'Inghilterra.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale le razzie di oro continuarono su amplissima scala: si sa che il totale delle riserve auree espropriate ai governi europei ammontava, all'epoca, a 550 milioni di dollari, mentre non si conosce ancora la cifra dei beni espropriati ai privati, inclusi gli ebrei deportati nei campi di concentramento. Sia Walther Funk che Emil Puhl furono processati a Norimberga e condannati per crimini di guerra, così come Herman Schmitz, direttore del colosso chimico IG Farben, e il Barone von Schroeder, proprietario della J.H. Stein Bank, la banca che gestiva i depositi della Gestapo, la polizia politica di Hitler, i cui membri avevano accumulato ingenti fortune spogliando dei loro averi gli ebrei destinati ai campi di concentramento.
La IG Farben, al suo apogeo, fu la più grande industria chimica al mondo e la quarta in totale dietro General Motors, U.S. Steel e Standard Oil. I suoi dirigenti furono coinvolti nei crimini di guerra commessi dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Pertanto, i suoi stabilimenti nei territori occupati dall'Armata Rossa vennero confiscati dal governo sovietico, mentre a Ovest gli Alleati ne sequestrarono tutte le proprietà nel 1945 e la liquidarono definitivamente nel 1952. La IG Farben deteneva il brevetto del famigerato pesticida Zyklon B., usato per sterminare gli ebrei nelle camere a gas. Nel 1941 i suoi dirigenti costruirono uno stabilimento nella cittadina polacca di Monowitz, vicino al campo di concentramento di Auschwitz, nel quale sfruttavano il lavoro degli internati nel campo. Per inciso, anche lo scrittore Primo Levi fu impiegato in quello stabilimento in qualità di chimico.
La IG Farben, da colosso mondiale qual era, deteneva pacchetti azionari delle principali aziende americane, tra le quali spiccano la Standard Oil di John Rockfeller, il colosso della chimica statunitense DuPont, la United States Industrial Alcohol Company e molte altre. Il governo americano, all'inizio della guerra, aprì un'indagine per chiarire il significato di queste partecipazioni azionarie, ma in seguito l'indagine fu fatta cadere per motivi politici: il governo aveva bisogno del sostegno delle stesse aziende per portare avanti lo sforzo bellico. (continua)

venerdì 29 giugno 2012

Let me please introduce myself \1

Norman Montagu, un uomo indubbiamente ricco, ma spesso fatto oggetto di critiche da parte dei suoi detrattori per gli atteggiamenti vistosi e cafoni, conseguenza del suo desiderio di proporsi in pubblico con un'immagine modellata su canoni pseudo-artistici. Fu governatore della Banca d'Inghilterra dal 1920 al 1944, indiscutibilmente il periodo più duro per l'economia inglese e per l'intera Europa. Proveniente da una famiglia di banchieri, già parente di un altro governatore della Banca d'Inghilterra,  Sir Mark Wilks Collet, Montagu studiò a Eton e a Cambridge prima di divenire dirigente della Banca nel 1907 e poi Governatore generale nel 1920.Amico intimo del presidente della Banca Centrale tedesca Hjalmar Schacht, al cui nipote fece da padrino, i due furono membri dell'Associazione Anglo-Tedesca. L'associazione, fondata nel 1935, quando Hitler era già divenuto cancelliere, aveva come obiettivo  dichiarato il consolidamento dei rapporti di amicizia tra Gran Bretagna e Germania, ma fu percepita dall'opinione pubblica internazionale come un'alleanza filo-nazista.I due banchieri furono anche membri del consiglio di amministrazione della Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), un'organizzazione creata nel 1930 e avente sede a Basilea, in Svizzera. La BIS è attualmente la più antica istituzione finanziaria internazionale: la sua nascita era prevista da uno dei punti del piano Young, elaborato dalle principali potenze economiche mondiali per tentare di risolvere l'annosa questione delle riparazioni di guerra che la Germania, uscita sconfitta dalla Prima Guerra Mondiale, doveva ancora versare ai paesi vincitori.Furono proprio Norman Montagu e Hjalmar Schacht i principali sostenitori della necessità di creare un organismo internazionale di questo tipo. Da notare che Schacht, in seguito, divenne ministro delle Finanze sotto il regime nazista.Lo storico David Blazer, rovistando negli archivi interni della Banca d'Inghilterra, ha accertato che Norman Montagu, nel marzo 1939, autorizzò il trasferimento delle riserve auree di proprietà del governo cecoslovacco verso un conto corrente intestato alla Banca Centrale tedesca, il tutto all'interno della BIS. Nel giro di dieci giorni l'oro, convertito in denaro, venne spostato su altri conti correnti. Nell'autunno del 1939, due mesi dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Montagu provò a ripetere il giochetto, autorizzando di nuovo il trasferimento di quantità di oro di proprietà della Cecoslovacchia ai nazisti. Questa volta, però, il governo britannico intervenne per bloccare l'iniziativa. (continua)

venerdì 22 giugno 2012

Felice di non esserci entrato

Una decina di anni fa ebbi la disgraziata idea di aderire ai DS, che all'epoca era un partito a gestione familiare i cui capi, tutti ex-Pci o comunque figli di vecchi militanti del Partito Comunista, sembravano ossessionati dal calo inesorabile dei consensi in quella che, a torto o a ragione, è considerata la regione simbolo della storia della sinistra: l'Emilia Romagna.
Già all'epoca era evidente come la soluzione al problema del calo storico di consensi sarebbe stata la fusione-incorporamento degli ex democristiani della Margherita, ansiosi di poter mettere le mani sulle tante poltrone che il governo di una delle regioni più ricche e più produttive d'Italia offre a chi ne dirige le sorti pubbliche.
Quando avvenne la fusione tra DS e Margherita io mi rifiutai di entrare nella nuova formazione; in realtà mi ero già pentito di avere aderito ai DS, un partito con tante brave persone tra gli iscritti, ma dove spesso chi accettava di assumersi delle responsabilità lo faceva più per poterne trarre vantaggi concreti che per contribuire in maniera disinteressata all'amministrazione della cosa pubblica. Appena si accorsero che non avevo intenzione di proseguire il mio percorso politico, qualche capetto locale tentò dapprima di lusingarmi facendo balenare i tanti vantaggi che anch'io avrei potuto ricevere se mi fossi impegnato nella costruzione della nuova formazione.  Dopo avere visto che proprio non volevo saperne di mescolarmi con gli ex della Margherita (che anche gli ex-DS disprezzavano, detto per inteso) i suddetti capetti passarono velocemente dalla carota al bastone, maneggiato con metodi molto poco democratici: un giorno gli operai del comune asfaltarono il marciapiede davanti a casa mia qualche centimetro più in alto del dovuto, così che ogni volta che pioveva si formavano delle pozzanghere e l'acqua allagava il giardino (e questa è la cosa meno pesante che ho dovuto subire, immaginate il resto).
Oggi, nel vedere il tetro spettacolo di un partito che appoggia zelantemente un governo di persone che, senza essere state elette, stanno disfacendo l'esistenza di milioni di persone per compiacere i grandi interessi della finanza internazionale alla quale molti di essi, lo dico per analogia con la situazione locale, immagino essere legati anche sul piano professionale, mi domando che senso abbia avuto mettere quell'aggettivo, "democratico", nel nome, quando l'effetto certo della presenza di Mario Monti al governo sarà quella di disfare quel poco di democrazia rimasta in questo paese, sempre più irrimediabilmente oberato dai debiti e ormai privo della propria autosufficienza in campo economico e politico.
Prima o poi questa fase politica finirà e allora qualcuno dovrà scrivere la storia di come un gruppo di politici quarantenni, cresciuti e formatisi alla scuola del più grande partito comunista dell'Occidente, colti di sorpresa, all'apice della loro carriera, dal crollo dei regimi comunisti dell'Europa dell'Est, siano riusciti a riciclarsi presso il grande capitale internazionale e a farsi accogliere a braccia aperte dentro l'Internazionale Socialista, accreditandosi come degli autentici riformisti. Prima o poi qualcuno la dovrà scrivere questa storia, e vi garantisco che ci sarà poco da ridere.

martedì 19 giugno 2012

Il sangue è randagio - James Ellroy

La parola esatta è: estenuante. 859 pagine per descrivere il tramonto della reggenza Hoover alla guida dell' FBI e la fine di COINTELPRO, il programma centralizzato di infiltrazione che per oltre 15 anni operò al fine di screditare e reprimere i movimenti per i diritti civili.
Il terzo volume della trilogia di Ellroy dedicato alla storia americana contemporanea ricostruisce le vicende che vanno dal 1968 al 1972, dall'elezione di Richard Nixon alla presidenza degli Stati Uniti fino alla morte di Hoover, con la conseguente distruzione di tutti i dossier del suo archivio privato, relativi a quasi cinquant'anni di vicende pubbliche.
L'8 marzo 1971 un commando del CITIZEN'S COMMISSION TO INVESTIGATE THE FBI fa irruzione nottetempo nella sede di Media, in Pensilvanya e porta via una quantità considerevole di documenti riservati che svelano l'esistenza di un progetto mirato a "smascherare, disgregare, sviare, screditare, o diversamente neutralizzare" i gruppi politici dissidenti negli Stati Uniti.  Il COINTELPRO, per l'appunto. Tra gli appartenenti al commando figura anche Karen Sifakis, una docente universitaria di origine greca che ha intrecciato una relazione extra-coniugale con un agente dell'FBI, Dwight Holly. La Sifakis mette Holly in contatto con un'attivista rivoluzionaria di colore disposta a svolgere lavoro di infiltrazione e in cambio, riceverà dallo stesso Holly la pianta dell'edificio di Media, assieme a importanti informazioni sul sistema di allarme e sul servizio di sorveglianza.
Il libro ha un antefatto: una rapina commessa a Los Angeles nel 1964 ai danni di un furgone portavalori, conclusa con l'uccisione delle guardie di scorta e dei banditi da parte del loro capo, desideroso di cancellare ogni traccia dell'identità dei complici. La ricerca della verità sulla rapina diviene una vera e propria ossessione per un poliziotto della Polizia di Los Angeles di nome Scotty Bennet e per uno scalcinato investigatore privato di nome Donald Crutchfield, che si guadagna da vivere sorvegliando le scappatelle extra coniugali di qualche marito troppo arrapato, soddisfando così anche le sue tendenze voyeuristiche. Crutchfield verrà coinvolto poco alla volta in un gioco più pesante di lui, ma riuscirà comunque a sopravvivere e a portare avanti la sua ostinata ricerca della verità, dopo essersi recato più volte a Cuba per partecipare a incursioni contro i militari che sorvegliano le coste, o ad Haiti per sfruttare la manodopera locale nella costruzione di grandi alberghi, lasciandosi trascinare nel gorgo della sperimentazione allucinogena di erbe medicali dal potere magico e arrivando a sviluppare lui stesso sorprendenti capacità di chimico.
In mezzo a questa umanità corrotta e degradata spicca, imponente, la figura di Marshall Bowen, un nero omosessuale in forza alla Polizia di Los Angeles, che accetta di infiltrare alcuni gruppi politici neri per screditarli, come parte del programma COINTELPRO. Le pagine del suo diario, come quelle della Sifakis, riportate integralmente per lunghi tratti, costituiscono una delle migliori sequenze del libro, assieme alle ormai celeberrime trascrizioni delle conversazioni tra Hoover e i suoi sottoposti, in particolare l'agente Dwight Holly.
Bowen abitava nello stesso quartiere nero in cui è avvenuta la rapina nel 1964 e anche lui ne è ossessionato perché ha visto in faccia l'unico bandito che è riuscito a scappare, sopravvissuto al tentativo di eliminazione da parte del suo capo. Bowen lo rintraccia ad Haiti, ma ormai per lui è troppo tardi: durante una delle peregrinazioni solitarie nell'isola caraibica verrà ucciso da alcuni banditi in un tentativo di rapina.
Il libro è una girandola infernale e sterminata di sicari e affaristi senza scrupoli, boss della mafia, agenti dei servizi segreti americani che sembrano rimpiangere di non poter vivere sotto una delle tante dittature sudamericane, avventuriere coraggiose e spietate che hanno deciso di mettere la propria vita al servizio della Grande Causa della Rivoluzione Mondiale e, sopra tutti, l'immancabile figura di "Dracula" Howard Hughes, il magnate dell'aeronautica che, terrorizzato all'idea di ammalarsi, vive in completo isolamento tramando piani per favorire l'ascesa politica di Nixon e screditare il suo avversario democratico alle elezioni presidenziali del 1968, Hubert Humphrey.
Ma le vere protagoniste di questo capitolo di storia sono le donne: bianche, nere, sindacaliste, terroriste, oppure borghesi annoiate e frustrate dalla loro esistenza mediocre e pronte a intrecciare relazioni con agenti dell' FBI per spingerli sulla via del pentimento e della redenzione, redenzione che si paga a caro prezzo perché un agente dei servizi segreti non può cambiare il proprio destino se non con la sua stessa vita. Un libro, quindi, che si chiude con una nota di speranza, al contrario dei due precedenti: esiste la possibilità di spezzare le proprie catene, sia individuali che collettive, perché il sangue è randagio e per quanto disperate siano le condizioni di vita, esiste la certezza che non saranno sempre i soliti a subire indefinitamente violenze e soprusi.

mercoledì 13 giugno 2012

Simmetria ingannevole

Narciso emerge dall'ombra, completamente preso dalla visione apparsa nello specchio d'acqua sottostante. Il resto della scena è avvolto dall'oscurità, spicca solo il volto del ragazzo, pieno di meraviglia e di desiderio davanti alla forma che gli appare come in un sogno. La strordinaria invenzione della doppia figura, a mo' di carta da gioco, conferisce un movimento verticale a tutto il dipinto, il cui fulcro è il ginocchio del giovane che, pienamente illuminato, fa emergere la specularità circolare dell'intera rappresentazione.
L'opera di Caravaggio, al quale è stata attribuita dopo numerose dispute, è uno splendido esempio di come l'arte possa rappresentare, in una sola immagine, l'eterno conflitto tra visione ideale e complessità della realtà.
Narciso è un personaggio della mitologia greca che, reso superbo e insensibile dalla sua bellezza, disprezza e respinge ogni persona che lo ama, compreso il dio Eros. Il più tenace tra i suoi spasimanti è un giovane di nome Aminia, al quale Narciso dona una spada perché si uccida e metta fine così ai suoi tormenti amorosi. Aminia, disperato per essere stato respinto tanto duramente, si uccide invocando gli dei perché lo vendichino.
La vendetta giunge quando Narciso vede la sua immagine riflessa in una fonte d'acqua. Dopo essersi perdutamente innamorato di se stesso, viene colto dalla disperazione, consapevole che non potrà mai appagare il suo amore. E' così che, in una sorta di simmetria circolare, si uccide con la stessa spada che ha donato ad Aminia.
In conclusione, se la vita del narcisista è dominata dal principio di piacere, l'effetto conclusivo della sua continua ricerca di bisogni inappagabili ne è il completo rovesciamento: la realizzazione dell'istinto di morte. L'autodistruzione è effetto dell'egocentrismo e della mancanza di consapevolezza che ne consegue, che produce azioni in contrasto con la propria natura e con i veri valori dell'esistenza umana. Il carattere narcisistico è rinchiuso in una dimensione circolare che lo spinge a ricercare disperatamente il consenso altrui attraverso miti esteriori e superficiali quali la ricchezza, il successo e il prestigio. L'incapacità di uscire da questa gabbia può segnare tragicamente il suo destino come, forse, è accaduto a Caravaggio.

venerdì 1 giugno 2012

Cadaveri reali o virtuali?

I metalmeccanici tedeschi hanno appena raggiunto un accordo con la loro controparte che prevede aumenti salariali del 4,3% per tutti i lavoratori del settore, operai, impiegati o apprendisti che siano. L'accordo prevede anche che gli apprendisti, una volta terminato l'apprendistato, abbiano la garanzia di un contratto a tempo indeterminato. Inoltre il consiglio di fabbrica può proibire l'utilizzo, da parte dell'imprenditore, del lavoro interinale, se c'è il sospetto che questo conduca a un abbassamento salariale o a un peggioramento delle condizioni lavorative oppure ancora alla perdita di posti di lavoro nell'azienda stessa. Inoltre, sempre in conseguenza dell'accordo, i lavoratori interinali che verranno impiegati in un'azienda metalmeccanica o elettrica riceveranno un supplemento salariale rispetto ai loro colleghi assunti a tempo indeterminato, per bilanciare lo svantaggio.
In Francia una delle prime misure adottate dal nuovo primo ministro Ayrault è stato mettere in pratica ciò che Hollande aveva promesso in campagna elettorale e cioè ripristinare la possibilità di andare in pensione a 60 anni per coloro che hanno iniziato a lavorare a 18 anni e hanno maturato 40-41 anni di contributi. Un provvedimento che riguarda circa 150.000 persone e che non ha nulla di demagogico perché coloro che hanno iniziato a lavorare subito dopo la maturità ( in Italia spesso si inizia anche prima ) e hanno raggiunto la soglia dei 60 anni dopo avere versato contributi per 40, hanno tutto il diritto di ritirarsi a godere i frutti delle proprie fatiche.
In Italia, al contrario, il Senato ha appena approvato una versione della riforma del mercato del lavoro addirittura peggiore rispetto a quella originaria presentata dal ministro Fornero, che già era pessima. Il testo, approvato con il voto di fiducia, rende ancora più facile per le aziende licenziare, toglie ogni garanzia di assunzione a tempo indeterminato ai lavoratori precari e indebolisce fortemente gli ammortizzatori sociali, compresa la cassa integrazione. E per quanto riguarda i lavoratori interinali c'è pure la beffa, perché questi possono essere si stabilizzati dopo 36 mesi di lavoro, ma in tal caso il contratto a tempo indeterminato sarà con l'agenzia interinale e non con l'azienda nella quale lavorano.
Tutto ciò in un paese nel quale gli imprenditori possono umiliare i propri dipendenti costringendoli a tornare al lavoro immediatamente dopo una devastante scossa di terremoto, con le conseguenze che tutti sappiamo, spalleggiati da assessori-rettori i quali, non si sa perché, continuano a definirsi di sinistra mentre inneggiano al primato della produzione ad ogni costo, compreso quello di lasciare dei cadaveri sotto le macerie di capannoni costruiti a "regola d'arte".