mercoledì 28 marzo 2012

La caccia \1

"Nel silenzio del cortile, guardavo i teschi di queste persone, centinaia, sistemati ordinatamente su tavoli improvvisati, caldi nel sole del mezzogiorno. File di crani senza mandibole, teschi di adulti, teschi di bambini, teschi con denti mancanti, teschi con denti di latte, teschi intatti, teschi fracassati e sfondati dall'impatto di machete e bastoni. Li studiavo, e questi memento mori, questo penetrante richiamo alla mortalità di ognuno risvegliava in me una sorta di coraggio e determinazione. Non era una scena raccapricciante. Non era rivoltante, almeno non a livello consapevole. Era una scena che metteva tristezza. Alcune di quelle reliquie sembrava volessero parlare."
Così il magistrato Carla Del Ponte, nel suo libro La Caccia, edito da Feltrinelli, rievoca il sopralluogo alla chiesa di Ntarama, in Ruanda, dove, nel pomeriggio del 14 aprile 1994, i miliziani Hutu massacrarono a colpi di fucili, machete e mazze chiodate una folla composta di famiglie Tutsi che aveva cercato rifugio dentro la chiesa. Nel 1994 frequentavo la facoltà di Storia Contemporanea e il Ruanda non lo avevo mai sentito nominare, come la Bosnia peraltro. Ma queste due regioni, all'improvviso, balzarono agli onori della cronaca per gli orrori che quotidianamente i televisori riversavano all'interno delle nostre case quiete  e confortevoli.
Il Ruanda ha una storia decisamente meno complessa della Bosnia: è uno stato immerso nel verde lussureggiante e un po' tetro che caratterizza le regioni dell'Africa Subsahariana, una zona cuscinetto tra la Tanzania e il Congo, istituita nel 1962, quando il Belgio decise di concedere l'indipendenza a questa regione, semi sconosciuta al resto del mondo e dilaniata dalle lotte tribali tra le due etnie che compongono la popolazione, i Tutsi e gli Hutu. Già l'anno successivo all'indipendenza le faide, gli scontri e le lotte tra i due gruppi etnici che si contendevano il potere minacciò di sprofondare il paese nella guerra civile.
A prima vista, il Ruanda non sembra possedere nulla che possa attrarre gli appetiti famelici delle potenze straniere: la massima celebrità locale sono i gorilla di montagna, resi famosi dalla naturalista americana Dian Fossey, la quale dedicò l'intera esistenza allo studio di questa specie e venne uccisa nel 1986 all'interno della baracca-abitazione nella quale risiedeva. Alcuni allora sospettarono che dietro l'omicidio ci fosse la mano del governo locale, intenzionato a rimuovere i vincoli ambientali che gravavano sul Parco del Virunga, al confine con il Congo, per sfruttare la presenza dei gorilla di montagna come attrattiva turistica di richiamo internazionale.
Francamente, la promozione dell'economia turistica non mi è mai sembrato un valido motivo per spingere un intero popolo a massacrarsi in una delle più cruente guerre civili che la storia abbia mai conosciuto: dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994 vennero massacrate a colpi di machete e di bastoni chiodati tra le 800.000 e un milione di persone. Il mio pensiero, in tutti questi anni, è stato che il Ruanda possedesse un valore di qualche tipo, economico o strategico, talmente elevato da spingere le grandi potenze, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, a fomentare gli odi inter-etnici per spingerlo nel caos e favorire l'ascesa al potere di uomini più accondiscendenti ai loro progetti di coloro che erano stati al governo nei decenni successivi all'indipendenza del paese.
Mi sono sempre chiesto quale potesse essere questo interesse e quale legame ci fosse con l'altro genocidio in corso, quello bosniaco, perché la concomitanza temporale mi è sempre apparsa sospetta.
Il libro della Del Ponte chiarisce, indirettamente e tra le righe, tutti i perché di quelle due sanguinossime guerre civili che hanno funestato l'ultimo decennio del secolo scorso. E' una sorta di resoconto, lunghissimo e molto dettagliato, dell'attività svolta dal magistrato svizzero negli anni in cui ha presieduto i due Tribunali Speciali istituiti dalle Nazioni Unite per giudicare i crimini commessi in Jugoslavia e in Ruanda.
Mentre il Tribunale per la Jugoslavia ha registrato un relativo successo, incriminando 161 individui di tutte le fazioni per crimini di guerra, il Tribunale per il Ruanda non è riuscito a spezzare il muro di omertà eretto dai paesi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, soprattutto da Stati Uniti e Gran Bretagna, a difesa del governo ruandese uscito vincitore dalla guerra civile e dal suo principale puntello, il Fronte Patriottico Ruandese ( Fpr ). (continua)

sabato 3 marzo 2012

La rinascita della biblioteca di Sarajevo

Nel 1529 Zumarraga, inquisitore spagnolo e primo vescovo di Città del Messico, in una terra ormai sottomessa con la violenza dai Conquistadores, fece prelevare tutti i manoscritti aztechi dalla biblioteca principale e li fece accatastare nella piazza del mercato. Secondo gli osservatori presenti, i libri così raccolti formavano una montagna che si innalzava fino "ad oscurare il cielo".
A un segno del vescovo, alcuni monaci si avvicinarono con delle fiaccole alla catasta di pergamene e, cantando inni religiosi, vi appiccarono il fuoco, mandando in fumo migliaia di pagine ornate di immagini policrome. Se il ruolo dei conquistadores nel Nuovo Mondo era stato quello di uccidere e depredare, il ruolo dei religiosi  al loro seguito fu quello di cancellare ogni traccia della memoria dei popoli vinti, per impedire che un giorno questi, prendendo consapevolezza delle proprie origini e della  propria storia, si sollevassero contro i vincitori.
Scommetto che l'ordine impartito dai generali serbi, il 25 agosto 1992, di bombardare la biblioteca di Sarajevo e di incendiarne il contenuto, quasi 100.000 libri, aveva lo stesso scopo: cancellare ogni traccia della storia e dell'identità di una regione, la Bosnia, nella quale cristiani, musulmani ed ebrei erano riusciti a convivere pacificamente per secoli, realizzando un equilibrio difficilissimo e sconosciuto a tutti i paesi dell'Occidente. Buona parte del patrimonio librario andò perduto in quel rogo, ma oggi un documentario realizzato dalla BBC svela che i manoscritti antichi, mai catalogati e neppure stampati, furono messi in salvo preventivamente dal direttore della biblioteca e dai suoi aiutanti, tra cui un custode congolese, e trascritti su microfilm.
I manoscritti si trovavano all'ultimo piano dell'edificio, quello più esposto al tiro dell'artiglieria serba. Così, appena iniziarono i bombardamenti, il direttore decise di trasportarli nel sotterraneo della vicina scuola di teologia. Assieme ai suo collaboratori, fu costretto ad attraversare di corsa strade e ponti per sfuggire al tiro dei cecchini appostati sui palazzi o sulle colline che circondano la città, reggendo scatoloni zeppi dei preziosi incunaboli. Il documentario della BBC rende omaggio allo straordinario coraggio dimostrato dal personale bibliotecario, uomini e donne che, nel corso della guerra, hanno rischiato la vita ogni giorno per recarsi regolarmente al lavoro, spinti solo dall' amore per i libri.
La biblioteca fu fondata nel 1521, pochi anni prima del rogo dei manoscritti aztechi, dal governatore Gazi Husrev, il quale voleva fare di Sarajevo il centro culturale dell'impero Ottomano e a questo scopo fondò molte istituzioni per approfondire lo studio delle arti e delle scienze islamiche: oltre alla biblioteca, anche la scuola di teologia, la madrassa Kursumli.
L'intera collezione di manoscritti consiste di 10.067 pezzi, alcuni risalenti a oltre 900 anni fa: molti sono stati composti in arabo, a Baghdad; in seguito sono stati riscritti dai cittadini turchi che abitavano nelle repubbliche caucasiche e infine sono stati acquistati da cittadini bosniaci che, nei secoli, ne hanno fatto dono alla biblioteca. Gli incunaboli rappresentano uno straordinario patrimonio di bellezza e un'insostituibile testimonianza della tradizione di diversità multietnica e multi culturale della città.
Ora che l'eredità scritta della storia di Sarajevo è finalmente stata restituita ai suoi abitanti c'è la speranza che la popolazione scampata al genocidio posso restaurare, assieme all'edificio distrutto dalle fiamme, anche quello straordinario clima di convivenza multireligiosa che alcuni, anche nelle "tolleranti" democrazie occidentali, avrebbero preferito venisse distrutto per sempre, per nascondere al mondo la realtà dell'esistenza di un Islam europeo, laico e tollerante, in grado di fare da ponte tra l'Europa e il mondo arabo, rendendo così inutile l'opera dei predicatori da strapazzo e dei crociati da operetta che abbiamo visto proliferare sugli schermi televisivi negli ultimi anni. La passione per i libri e l'amore per la cultura dimostrata dagli impiegati della biblioteca di Sarajevo ha reso sterili i loro desideri e di questo possiamo solo gioire.

Il documentario della BBC