sabato 22 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \4

Con la fine del comunismo in Unione Sovietica crolla un intero mondo che, per quarant'anni, grazie all'alleanza tra le forze del laburismo inglese, della sociologia della scuola di Francoforte, delle correnti del cattolicesimo sociale e dei paesi comunisti, ha tenuto in scacco l'economia dei paesi occidentali, mantenendola nel binario più favorevole ad esse, quello costituito dalla grande industria sovvenzionata dallo stato, con il sostegno delle organizzazioni sindacali. Questo modello ha funzionato per oltre quarant'anni e ha garantito all'Occidente la democrazia, la pace e lo sviluppo economico, dopo la tragedia delle due guerre mondiali e dell'olocausto. Il modello però aveva un tarlo, un convitato di pietra costituito dalle forze economiche di estrema destra che, pur sconfitte, erano riuscite a inserirsi nel sistema grazie al ruolo svolto dai mediatori del commercio di armi, di cui l'Unione Sovietica aveva bisogno sia per importare tecnologia militare che per esportarla. Alla fine della Guerra Fredda, quando le potenze vincitrici hanno voluto creare un nuovo tipo di economia, fondata sul rilancio degli scambi commerciali e sull'indebolimento delle tutele sindacali, le forze di estrema destra hanno ottenuto carta bianca per riorganizzare l'intera produzione di armamenti mondiale, perché questa era la base per avviare un nuovo processo di concentrazione del capitale, svincolato dai vecchi equilibri. La tragedia di interi popoli, dalla Jugoslavia alla Somalia al Ruanda, è stato il premio ottenuto non, come la retorica post-guerra fredda ha voluto far credere, per aver combattuto il comunismo ma, al contrario, per aver diligentemente collaborato al mantenimento delle buone relazioni tra Oriente e Occidente, rimanendo in posizione defilata ancorché essenziale per l'economia mondiale.



Una puntata della trasmissione Report, condotta da Milena Gabanelli, dal titolo "Le vie delle armi non sono infinite", del 3/11/1999, prende spunto dal sequestro, avvenuto nel porto di Ancona, di un grosso carico di armi stipato in un camion della Caritas. Nella trasmissione, infarcita di interviste a ex dirigenti dei servizi segreti e a giovani generali dall'accento marcatamente piemontese, si afferma che negli anni novanta il Monte dei Paschi di Siena ha svolto un'intensa attività di mediazione del traffico di armi. Il nocciolo della trasmissione è che alla banca toscana sia stato imposto una sorta di contrappasso per vendicarsi delle passate collaborazioni con i regimi comunisti. Può darsi che ciò sia vero; resta il fatto che il tempismo della puntata di Report in questione è impressionante: il 3 novembre del 1999 non solo era già finita la guerra civile in Jugoslavia, con relativo scannatoio, ma Milosevic aveva anche accettato la proposta di armistizio da parte della diplomazia internazionale sul Kosovo, dietro la garanzia che l'indipendenza della regione non sarebbe stata una delle condizioni necessarie per la pace.
Qualche anno prima un'altra giornalista, Ilaria Alpi, dotata di meno tempismo della Gabanelli, venne uccisa in Somalia assieme al suo operatore, Miran Hrovatin, per essere andata a mettere il naso in un traffico di armi nel quale erano coinvolti, in maniera poco limpida, anche l'esercito e i servizi segreti italiani.
Da segnalare il commento finale con cui la Gabanelli chiude la trasmissione: "le industrie degli armamenti servono a garantire l'autonomia di un paese. Queste industrie costano e si mantengono anche con l'esportazione delle armi oppure le manteniamo noi con le nostre tasse. Ma questa ipotesi sicuramente, non piace. Allora, quando vediamo gente che soffre, conflitti in giro per il mondo, preferiamo indignarci e ogni tanto, magari, fare un po' di beneficenza." 
Oppure, aggiungo io, condurre trasmissioni televisive di denuncia con la collaborazione di soggetti di dubbia reputazione e provenienza, considerato che i servizi segreti italiani non hanno mai odorato di bucato e l'esercito è coinvolto a pieno titolo nella produzione di quel materiale bellico che ha provocato sofferenze immani a milioni di persone innocenti in giro per il mondo. La  Jugoslavia produceva ed esportava armi, ma ciò non è servito a garantirne l'autonomia. Al contrario, ne ha garantito solo l'autodistruzione, e al momento opportuno per favorire la riorganizzazione dell'industria degli armamenti italiana e mondiale.
E' vero: le vie delle armi non sono infinite. Speriamo solo che, per quanto riguarda il nostro paese, non si arrestino nelle aule del Tribunale per i Crimini di Guerra nella ex-Jugoslavia. ( fine )

giovedì 20 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \3

La bilancia dei pagamenti della Jugoslavia è costantemente in rosso: il maresciallo Tito non può contare sull’esportazione di materie prime come l’Unione Sovietica e ha bisogno di accedere continuamente ai prestiti internazionali per sostenere il massiccio apparato militare che costituisce l’ossatura del suo paese, finanziato solo in parte dalla produzione di armi leggere. 
La comunità internazionale, però, vuole aiutare la Jugoslavia perché ha bisogno dell’ opera di Tito per accedere al petrolio dei paesi del Terzo Mondo: il nostro paese, avendo un forte partito comunista e un passato di lotta partigiana, è il  più adatto a svolgere la funzione di partner economico-commerciale del paese balcanico. La Camera di Commercio di Milano, negli anni settanta, apre una sezione dedicata al commercio italo-jugoslavo e Raif Dizderevic, ultimo presidente della Repubblica Jugoslava, scrive nelle sue memorie, pubblicate da Longo Editore, a Ravenna: “le banche italiane sono state sempre molto generose con la Jugoslavia”.
Un istituto in particolare, che rappresenta la tradizione più prestigiosa della nostra storia nazionale, ha avuto rapporti economici molto intensi con tutti i paesi del blocco comunista, potendo usufruire della condizione di monopolio sul commercio estero del nostro paese. Ogni transazione commerciale, infatti, ha bisogno di una banca d’appoggio e nel caso italiano questa banca è il Monte dei Paschi di Siena.
Affari sicuri e grossi guadagni, perché i regimi comunisti hanno bisogno di tutto e comprano tutto, non solo tecnologia (alla fine degli anni sessanta l’Italia è il maggior esportatore mondiale di macchinari in Unione Sovietica) ma anche beni di prima necessità come il grano, di cui gli Stati Uniti sono i primi fornitori, facendo la fortuna della Bank of America, la principale banca commerciale americana, che finanzia sia l’URSS che i coltivatori americani. In Francia questo ruolo viene esercitato dal Credit Lyonnais, ma quasi tutte le grandi banche, volente o nolente, prestano denaro ai paesi comunisti.
La Distensione, per questi istituti, si rivela un colossale affare e alcuni di essi possono permettersi il lusso di svolgere un’attività  di mecenatismo che difficilmente riuscirebbero a esercitare sotto le normali condizioni dell’economia di mercato. Gli anni della Distensione, infatti, sono quelli del grande boom dell’industria culturale: musica, cinema, televisione, fumetti, arte. La cultura di massa raggiunge il suo apogeo. Gli istituti di credito possono permettersi di finanziare artisti di talento alle prime armi senza preoccuparsi più di tanto se questi raggiungono subito il successo o meno, tanto il denaro affluisce con generosità nelle loro casse, più o meno come il grano nei depositi dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. La Bank of America finanzia il primo film di Walt Disney e il lavoro di due giovani laureati dell’Università di Stanford, Bill Hewlett e David Packard, i quali, dopo aver brevettato un oscillatore audio che lo stesso Disney utilizzerà nel film Fantasia, fonderanno la Hewlett-Packard, che diverrà un colosso nel settore dell’elettronica e, in seguito, dell’informatica. La filiale olandese del Credit Lyonnais sborsa quattrini a ripetizione per sostenere il cinema indipendente di Hollywood. Sono questi gli anni d’oro del cinema italiano, che oggi fatica a trovare fonti di finanziamento, ma che all’epoca riusciva a sfornare in continuazione film di alto livello grazie a registi e attori di talento.
Fu forse per questo motivo (chissà?) che quando nel 1977 la Biennale di Venezia decide di dedicare la mostra al tema del dissenso nei paesi dell’Europa dell’Est, si dovrà scontrare non solo con l’opposizione di Mosca, espressa chiaramente dall’ambasciatore sovietico a Roma, ma anche con quella di attori, letterati, registi, critici d’arte, giornalisti, editori, musicisti e politici di varia estrazione, appartenenti al Pci e non. La Biennale del Dissenso è organizzata da Carlo Ripa di Meana, notoriamente in quota Psi, il che presumibilmente spinge in tanti a pensare che ci sia qualcosa di strumentale nella scelta del tema centrale della mostra. Ma a parte ciò, è innegabile che per il mondo dell’arte e della cultura è troppo importante lasciare aperto il corridoio di comunicazione con i regimi comunisti.  E non sempre in maniera innocua, perché capita anche che grosse partite di armi lascino il nostro paese con destinazione Bulgaria, per citare un esempio, e poi finiscano nelle mani di qualche movimento marxista rivoluzionario o addirittura di qualche organizzazione terroristica.
Il gioco funziona fino a quando Ronald Reagan non viene eletto presidente degli Stati Uniti. L’ex attore decide di rilanciare con forza il confronto militare con l’Unione Sovietica, anche in seguito all’invasione dell’Afghanistan da parte di quest’ultima, tagliando bruscamente i trasferimenti di grano e di tecnologia verso i paesi comunisti: un intero mondo, che si è impegnato a fondo e in qualche caso ha costruito le sue fortune sul dialogo con i regimi dell’Europa dell’Est e del Terzo Mondo, entra in crisi. Non a caso, durante gli anni ottanta si assiste al declino sia della creatività artistica nei prodotti della cultura di massa che della frequenza e intensità delle azioni terroristiche. (continua)



domenica 16 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \2


L'Unione Sovietica ha bisogno di importare grano e tecnologia dall'Occidente: il grano viene venduto a prezzo di favore dagli Stati Uniti e le banche occidentali sono felici di concedere alla potenza del socialismo mondiale crediti a lungo termine che vengono regolarmente ripagati. L'URSS infatti, fino alla sua fine, ha sempre avuto un eccellente record per quanto riguarda la restituzione dei debiti contratti con le banche, potendo contare su abbondanti riserve di valuta pregiata (dollari e sterline) che le derivano dall'esportazione di materie prime pregiate come petrolio e gas. 
Come già detto, negli anni settanta tutte le grandi corporations stipulano contratti con l'Unione Sovietica per la vendita o la fornitura di tecnologia all'avanguardia, oppure per la realizzazione di impianti “chiavi in mano”, cioè completi di macchinari e attrezzatura. Nel 1974 il Congresso degli Stati Uniti approva il Trade Act, cioè una nuova legislazione sul commercio che concede al presidente in carica una sorta di binario privilegiato per negoziare accordi commerciali che il Congresso può solo approvare e disapprovare, ma non emendare. All'epoca il presidente americano era il repubblicano Gerald Ford, che il 26 marzo 1976 saluta l'accordo per la realizzazione del complesso petrolchimico nel porto di Fiume da parte della Dow Chemical con un messaggio augurale nel quale auspica “un'ulteriore intensificazione dei rapporti di collaborazione economica tra Stati Uniti e Jugoslavia”. Il Washington Post scrive che l'iniziativa “è di fondamentale importanza nel trasferimento, passo per passo, della tecnologia statunitense in uno stato del socialismo”.
Tutta la tecnologia? No, perché in realtà non tutto è liberamente trasferibile nei paesi comunisti: mentre la lista delle aziende americane disposte a cooperare con le autorità sovietiche cresce giorno per giorno il trasferimento di tecnologia militare non decolla. I colossi del settore non sembrano intenzionati a sfidare i veti governativi che, per quanto riguarda il settore strategico degli armamenti, sono ancora molto rigidi.  Il clima della Distensione, però, ha favorito ormai l'apertura di canali per il trasferimento di questo tipo di tecnologia: è sufficiente trovare il modo per aggirare l'embargo istituito dal governo americano.
La soluzione si trova con l'aiuto di uno dei paesi che fanno parte del Movimento dei Paesi Non-Allineati, un raggruppamento di nazioni del Terzo Mondo che si sono appena scrollate di dosso il dominio coloniale. Grazie alla mediazione di Tito e della Jugoslavia (e del Partito Laburista britannico), l'India si dice disposta a far giungere le armi dall'Occidente all'Unione Sovietica e a far compiere agli armamenti il percorso inverso, cioè dalla patria del socialismo ai paesi dell'Africa e dell'Asia impegnati in guerre di liberazione o in guerre civili tout-court.
Grazie a questi canali informali e privilegiati, l'Unione Sovietica diventa il primo paese esportatore di armi al mondo e incassa così un'ulteriore quantità di valuta pregiata che potrà utilizzare per ripianare il deficit della bilancia dei pagamenti. Ancora nel 1987, alla vigilia della crollo del comunismo, l'URSS risulterà esportare più armi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia messi assieme. Nel 1974 vede la luce anche il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, che alla fine degli anni ottanta darà vita agli Accordi di Basilea in materia di requisiti patrimoniali delle banche, la base per la riforma del commercio mondiale.
Ma la verità più amara, che alla fine della Guerra Fredda si ritorcerà contro la Jugoslavia, è che i paesi comunisti, per poter acquistare e vendere armi in giro per il mondo, hanno bisogno di affidarsi a mediatori d'affari che, ideologicamente, si trovano agli estremi opposti rispetto alla cultura politica del Movimento dei Paesi Non Allineati. Tanto è vero che negli anni settanta alcuni paesi, come l'Angola, verranno letteralmente fatti a pezzi da una sanguinosissima guerra civile. D'altra parte, senza i proventi derivanti dalla vendita di armi, né l'Unione Sovietica, né la Jugoslavia sarebbero in grado di pagare le forniture di tecnologia militare provenienti dall'Occidente. Quando il presidente Bush, nel quadriennio 1988-1992, rinegozierà gli accordi commerciali con un'Unione Sovietica i cui dirigenti sono ansiosi di approdare alle sponde del capitalismo, una delle condizioni imposte dal presidente americano sarà proprio che gli Stati Uniti riprendano in mano il traffico di armi mondiale: non a caso nel 1994 le statistiche sull'export di armamenti vedono il capovolgimento della situazione del 1987, con il crollo da parte della Russia e la leadership mondiale ormai saldamente in mano agli Stati Uniti. Il prezzo della riorganizzazione del mercato delle armi verrà fatto pagare, secondo un crudele contrappasso, ai popoli della ex Jugoslavia. (continua)

Nella foto Gerald Ford, presidente americano dal 1974 al 1976

venerdì 14 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \1


Nel 1975 i ministri degli esteri di Italia e Jugoslavia, Mariano Rumor e Milos Minic, siglano il Trattato di Osimo che chiude definitivamente la partita degli indennizzi agli esuli dell’Istria e della Dalmazia, nel senso che nega definitivamente agli italiani la possibilità di rientrare in possesso dei beni a loro espropriati dal regime di Tito.
Per il leader jugoslavo il Trattato è un successo che gli spalanca le porte del capitalismo internazionale: siamo nell’epoca della Distensione e pochi mesi prima, in agosto, il Trattato di Helsinki aveva sancito l’inviolabilità delle conquiste territoriali fatte dall’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale nell’Europa dell’Est. I due trattati creano le condizioni perché le multinazionali di tutto il mondo, americane e non, possano investire nei paesi comunisti esportando così tecnologia all’avanguardia, che i sovietici non sono riusciti ad acquisire neppure attraverso il canale dello spionaggio: computer e relativi componenti ( processori, memorie, semiconduttori, periferiche etc...); elettrodomestici di ogni tipo tra cui videoregistratori di ultimo modello; macchinari e attrezzature per fabbriche di automezzi; sistemi radar e componentistica elettronica allora costosissima. Tutto ciò finisce per incrementare il livello delle conoscenze degli ingegneri russi e le capacità dei lavoratori che ottengono la possibilità di essere addestrati dai dipendenti delle aziende multinazionali.
Anche in Jugoslavia, che è un po’ la sorella minore dell’Unione Sovietica, nella seconda metà degli anni settanta tutti i principali gruppi europei e americani fanno la fila per investire. Grazie ad essi, Tito intende coronare il suo sogno di rendere Fiume il primo porto dell’Adriatico, espropriando Trieste del primato storico.
Infatti, il Trattato di Osimo contiene una clausola che stabilisce la creazione di una zona franca alle spalle del porto di Trieste, una grande area industriale che dovrebbe estendersi per un terzo in Italia e per due terzi in Slovenia, con la funzione di gestire il flusso di merci in entrata e in uscita dal porto di Trieste, compresa quindi l’eventuale lavorazione, oltre che lo stoccaggio. Questa zona, che non verrà mai realizzata, nelle intenzioni dei firmatari del Trattato doveva ospitare il nuovo tessuto industriale della città triestina: in pratica, Tito intende espropriare Trieste delle sue aziende per trasferirle in Slovenia, sfruttando la remissività del governo italiano di allora, che, almeno a giudicare dalla relazione al parlamento del ministro Rumor, sembra accondiscendere al progetto del leader jugoslavo.
I cittadini di Trieste, intuendo il pericolo, si ribellano all’accordo e danno il via a una raccolta di firme, che sancirà l’inizio di un braccio di ferro protrattosi fino all’inizio degli anni ottanta. Alla fine la zona franca rimarrà solo sulla carta, ma nel frattempo la comunità internazionale si fa in quattro per aiutare la Jugoslavia a colmare il deficit della bilancia dei pagamenti che risulta perennemente in rosso. Nel 1979, ad esempio, i ministri degli esteri della CEE riescono a far approvare dalla Banca Europea degli Investimenti un prestito di 220 miliardi di lire a favore del paese balcanico. La somma viene giudicata troppo modesta dai rappresentanti del governo italiano, che dichiarano di essersi battuti invano per ottenere un trattamento più generoso e si lamentano che alla fine abbia prevalso la linea del risparmio. Ormai si parla apertamente di far entrare la Jugoslavia nella CEE.
In effetti il prestito di 220 miliardi di lire è troppo esiguo. Ma per cosa? Troppo esiguo per pagare tutte le opere che le multinazionali stanno per realizzare nei pressi del porto di Fiume per renderlo in grado di reggere la concorrenza dei grandi porti internazionali: autostrade, ferrovie, oleodotti, impianti di trasporto e di stoccaggio delle merci, svincoli ferroviari e autostradali, raffinerie e gasdotti. Il progetto prevede che Fiume diventi il collegamento tra i porti del Centro Europa e i paesi del Terzo Mondo, con i quali Tito ha stabilito da tempo legami fortissimi, anche economici, oltre che politici: i cantieri navali di Fiume hanno costruito il 40% della flotta mercantile dell’India e la totalità di quella del Sudan.
La Dow Chemicals, colosso americano della chimica, costruisce nel porto istriano un intero impianto petrolchimico; la Citroen vi apre uno stabilimento per fabbricare auto; la Fiat, che ha già inaugurato uno stabilimento in Serbia, concede alla Jugoslavia la licenza di costruire motori per le navi su un proprio brevetto.
Tutta l’economia dell’Europa Centro-Orientale viene riorganizzata per soddisfare le esigenze e le ambizioni di Tito: le merci della Cecoslovacchia, che potrebbero raggiungere comodamente i porti sul Mar Baltico, vengono inviate a Fiume via treno. E a Fiume arriva anche il petrolio dalla Libia, che un oleodotto nuovo di zecca costruito dalle multinazionali del settore trasportano verso l’Europa Centrale, accentuandone la dipendenza dalla Jugoslavia.