Nel
1975 i ministri degli esteri di Italia e Jugoslavia, Mariano Rumor e
Milos Minic, siglano il Trattato di Osimo che chiude definitivamente
la partita degli indennizzi agli esuli dell’Istria e della
Dalmazia, nel senso che nega definitivamente agli italiani la
possibilità di rientrare in possesso dei beni a loro espropriati dal
regime di Tito.
Per il
leader jugoslavo il Trattato è un successo che gli spalanca le porte
del capitalismo internazionale: siamo nell’epoca della Distensione
e pochi mesi prima, in agosto, il Trattato di Helsinki aveva sancito
l’inviolabilità delle conquiste territoriali fatte dall’Unione
Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale nell’Europa dell’Est.
I due trattati creano le condizioni perché le multinazionali di
tutto il mondo, americane e non, possano investire nei paesi
comunisti esportando così tecnologia all’avanguardia, che i
sovietici non sono riusciti ad acquisire neppure attraverso il
canale dello spionaggio: computer e relativi componenti ( processori,
memorie, semiconduttori, periferiche etc...); elettrodomestici di
ogni tipo tra cui videoregistratori di ultimo modello; macchinari e
attrezzature per fabbriche di automezzi; sistemi radar e componentistica elettronica allora costosissima. Tutto ciò finisce
per incrementare il livello delle conoscenze degli ingegneri russi e le
capacità dei lavoratori che ottengono la possibilità di essere
addestrati dai dipendenti delle aziende multinazionali.
Anche
in Jugoslavia, che è un po’ la sorella minore dell’Unione
Sovietica, nella seconda metà degli anni settanta tutti i principali
gruppi europei e americani fanno la fila per investire. Grazie ad
essi, Tito intende coronare il suo sogno di rendere Fiume il primo
porto dell’Adriatico, espropriando Trieste del primato storico.
Infatti,
il Trattato di Osimo contiene una clausola che stabilisce la
creazione di una zona franca alle spalle del porto di Trieste, una
grande area industriale che dovrebbe estendersi per un terzo in
Italia e per due terzi in Slovenia, con la funzione di gestire il
flusso di merci in entrata e in uscita dal porto di Trieste, compresa
quindi l’eventuale lavorazione, oltre che lo stoccaggio. Questa
zona, che non verrà mai realizzata, nelle intenzioni dei firmatari
del Trattato doveva ospitare il nuovo tessuto industriale della città
triestina: in pratica, Tito intende espropriare Trieste delle sue
aziende per trasferirle in Slovenia, sfruttando la remissività del
governo italiano di allora, che, almeno a giudicare dalla relazione
al parlamento del ministro Rumor, sembra accondiscendere al progetto
del leader jugoslavo.
I
cittadini di Trieste, intuendo il pericolo, si ribellano all’accordo
e danno il via a una raccolta di firme, che sancirà l’inizio di un
braccio di ferro protrattosi fino all’inizio degli anni ottanta.
Alla fine la zona franca rimarrà solo sulla carta, ma nel frattempo
la comunità internazionale si fa in quattro per aiutare la
Jugoslavia a colmare il deficit della bilancia dei pagamenti che
risulta perennemente in rosso. Nel 1979, ad esempio, i ministri degli
esteri della CEE riescono a far approvare dalla Banca Europea degli
Investimenti un prestito di 220 miliardi di lire a favore del paese
balcanico. La somma viene giudicata troppo modesta dai rappresentanti del
governo italiano, che dichiarano di essersi battuti invano per
ottenere un trattamento più generoso e si lamentano che alla fine
abbia prevalso la linea del risparmio. Ormai si parla apertamente di
far entrare la Jugoslavia nella CEE.
In
effetti il prestito di 220 miliardi di lire è troppo esiguo. Ma per
cosa? Troppo esiguo per pagare tutte le opere che le multinazionali
stanno per realizzare nei pressi del porto di Fiume per renderlo in
grado di reggere la concorrenza dei grandi porti internazionali:
autostrade, ferrovie, oleodotti, impianti di trasporto e di
stoccaggio delle merci, svincoli ferroviari e autostradali, raffinerie e gasdotti.
Il progetto prevede che Fiume diventi il collegamento tra i porti del
Centro Europa e i paesi del Terzo Mondo, con i quali Tito ha
stabilito da tempo legami fortissimi, anche economici, oltre che
politici: i cantieri navali di Fiume hanno costruito il 40% della
flotta mercantile dell’India e la totalità di quella del Sudan.
La Dow
Chemicals, colosso americano della chimica, costruisce nel porto
istriano un intero impianto petrolchimico; la Citroen vi apre uno
stabilimento per fabbricare auto; la Fiat, che ha già inaugurato uno
stabilimento in Serbia, concede alla Jugoslavia la licenza di
costruire motori per le navi su un proprio brevetto.
Tutta
l’economia dell’Europa Centro-Orientale viene riorganizzata per
soddisfare le esigenze e le ambizioni di Tito: le merci della
Cecoslovacchia, che potrebbero raggiungere comodamente i porti sul
Mar Baltico, vengono inviate a Fiume via treno. E a Fiume arriva
anche il petrolio dalla Libia, che un oleodotto nuovo di zecca
costruito dalle multinazionali del settore trasportano verso l’Europa
Centrale, accentuandone la dipendenza dalla Jugoslavia.
da che mondo è mondo l'uomo è sempre stato homini lupus...e non ha di certo perso il vizio..
RispondiEliminaE' per questo che continuo a scrivere sul mio blog...
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