giovedì 20 dicembre 2012

Una storia italiana, ma non solo \3

La bilancia dei pagamenti della Jugoslavia è costantemente in rosso: il maresciallo Tito non può contare sull’esportazione di materie prime come l’Unione Sovietica e ha bisogno di accedere continuamente ai prestiti internazionali per sostenere il massiccio apparato militare che costituisce l’ossatura del suo paese, finanziato solo in parte dalla produzione di armi leggere. 
La comunità internazionale, però, vuole aiutare la Jugoslavia perché ha bisogno dell’ opera di Tito per accedere al petrolio dei paesi del Terzo Mondo: il nostro paese, avendo un forte partito comunista e un passato di lotta partigiana, è il  più adatto a svolgere la funzione di partner economico-commerciale del paese balcanico. La Camera di Commercio di Milano, negli anni settanta, apre una sezione dedicata al commercio italo-jugoslavo e Raif Dizderevic, ultimo presidente della Repubblica Jugoslava, scrive nelle sue memorie, pubblicate da Longo Editore, a Ravenna: “le banche italiane sono state sempre molto generose con la Jugoslavia”.
Un istituto in particolare, che rappresenta la tradizione più prestigiosa della nostra storia nazionale, ha avuto rapporti economici molto intensi con tutti i paesi del blocco comunista, potendo usufruire della condizione di monopolio sul commercio estero del nostro paese. Ogni transazione commerciale, infatti, ha bisogno di una banca d’appoggio e nel caso italiano questa banca è il Monte dei Paschi di Siena.
Affari sicuri e grossi guadagni, perché i regimi comunisti hanno bisogno di tutto e comprano tutto, non solo tecnologia (alla fine degli anni sessanta l’Italia è il maggior esportatore mondiale di macchinari in Unione Sovietica) ma anche beni di prima necessità come il grano, di cui gli Stati Uniti sono i primi fornitori, facendo la fortuna della Bank of America, la principale banca commerciale americana, che finanzia sia l’URSS che i coltivatori americani. In Francia questo ruolo viene esercitato dal Credit Lyonnais, ma quasi tutte le grandi banche, volente o nolente, prestano denaro ai paesi comunisti.
La Distensione, per questi istituti, si rivela un colossale affare e alcuni di essi possono permettersi il lusso di svolgere un’attività  di mecenatismo che difficilmente riuscirebbero a esercitare sotto le normali condizioni dell’economia di mercato. Gli anni della Distensione, infatti, sono quelli del grande boom dell’industria culturale: musica, cinema, televisione, fumetti, arte. La cultura di massa raggiunge il suo apogeo. Gli istituti di credito possono permettersi di finanziare artisti di talento alle prime armi senza preoccuparsi più di tanto se questi raggiungono subito il successo o meno, tanto il denaro affluisce con generosità nelle loro casse, più o meno come il grano nei depositi dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. La Bank of America finanzia il primo film di Walt Disney e il lavoro di due giovani laureati dell’Università di Stanford, Bill Hewlett e David Packard, i quali, dopo aver brevettato un oscillatore audio che lo stesso Disney utilizzerà nel film Fantasia, fonderanno la Hewlett-Packard, che diverrà un colosso nel settore dell’elettronica e, in seguito, dell’informatica. La filiale olandese del Credit Lyonnais sborsa quattrini a ripetizione per sostenere il cinema indipendente di Hollywood. Sono questi gli anni d’oro del cinema italiano, che oggi fatica a trovare fonti di finanziamento, ma che all’epoca riusciva a sfornare in continuazione film di alto livello grazie a registi e attori di talento.
Fu forse per questo motivo (chissà?) che quando nel 1977 la Biennale di Venezia decide di dedicare la mostra al tema del dissenso nei paesi dell’Europa dell’Est, si dovrà scontrare non solo con l’opposizione di Mosca, espressa chiaramente dall’ambasciatore sovietico a Roma, ma anche con quella di attori, letterati, registi, critici d’arte, giornalisti, editori, musicisti e politici di varia estrazione, appartenenti al Pci e non. La Biennale del Dissenso è organizzata da Carlo Ripa di Meana, notoriamente in quota Psi, il che presumibilmente spinge in tanti a pensare che ci sia qualcosa di strumentale nella scelta del tema centrale della mostra. Ma a parte ciò, è innegabile che per il mondo dell’arte e della cultura è troppo importante lasciare aperto il corridoio di comunicazione con i regimi comunisti.  E non sempre in maniera innocua, perché capita anche che grosse partite di armi lascino il nostro paese con destinazione Bulgaria, per citare un esempio, e poi finiscano nelle mani di qualche movimento marxista rivoluzionario o addirittura di qualche organizzazione terroristica.
Il gioco funziona fino a quando Ronald Reagan non viene eletto presidente degli Stati Uniti. L’ex attore decide di rilanciare con forza il confronto militare con l’Unione Sovietica, anche in seguito all’invasione dell’Afghanistan da parte di quest’ultima, tagliando bruscamente i trasferimenti di grano e di tecnologia verso i paesi comunisti: un intero mondo, che si è impegnato a fondo e in qualche caso ha costruito le sue fortune sul dialogo con i regimi dell’Europa dell’Est e del Terzo Mondo, entra in crisi. Non a caso, durante gli anni ottanta si assiste al declino sia della creatività artistica nei prodotti della cultura di massa che della frequenza e intensità delle azioni terroristiche. (continua)



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