venerdì 27 aprile 2012

Diaz

Un film ad alta tensione che ricostruisce il pestaggio avvenuto alla scuola Diaz durante le manifestazioni organizzate in occasione del G8 a Genova, nel luglio 2001. La notte del 21 luglio, dopo la morte di Carlo Giuliani, un centinaio di persone si ritrovano nel dormitorio improvvisato nel complesso scolastico Diaz-Pascoli. La Polizia decide di fare irruzione nel complesso, ufficialmente per arrestare alcuni black-block responsabili delle violenze avvenute durante il giorno, in realtà per eseguire un pestaggio in piena regola. Le immagini che mostrano i poliziotti in tenuta antisommossa avventarsi contro gli occupanti inermi che tengono le mani alzate in segno di resa è una delle scene più agghiaccianti che si siano viste al cinema negli ultimi anni. Nonostante alcune esagerazioni propagandistiche ( "la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale" ), il film colpisce nel segno e tiene avvinghiato lo spettatore al vortice di tensione generato dagli scontri di piazza e culminante nell'esplosione di violenza alla scuola Diaz prima e alla caserma di Bolzaneto, in seguito.
L'unico rilievo che si può fare a Daniele Vicari riguarda l'espediente di ricostruire l'intera vicenda attraverso gli occhi di più protagonisti che la notte del 21 luglio si ritrovano a condividere lo stesso fatale destino nella scuola, tra i quali spicca un poliziotto integerrimo che non accetta di farsi coinvolgere nel clima di abusi: a volte si ha l'impressione che il regista perda il controllo del meccanismo da lui creato e non riesca a padroneggiarlo con adeguata maestria, cosi che la trama sembra precipitare nel caos.
Per il resto però il film è senz'altro da vedere. Qualcuno ha accusato Vicari di essersi fermato alla rappresentazione delle violenze senza cercare di delineare le responsabilità politiche, con particolare riferimento alla figura di Gianfranco Fini, all'epoca vicepresidente del consiglio e probabile regista ( per quanto riguarda l'Italia ) di tutta  l'operazione. Resta il fatto che, sottotraccia, il film spiega veramente tanto. Un'inquadratura in particolare colpisce nel segno: una ragazza seduta alla scrivania nell'ufficio del Genova Social Forum, sta cercando disperatamente di mettersi in contatto telefonicamente con gli altri militanti per comprendere cosa sta accadendo. Alle sue spalle campeggia un grande manifesto bianco con una scritta in rosso: "The debt!", riferito ovviamente al problema della cancellazione del debito dei paesi del Terzo Mondo. Ovviamente.

venerdì 20 aprile 2012

Anteprima del nuovo romanzo


Visto che la pubblicazione del nuovo romanzo va per le lunghe, ne approfitto per pubblicare in anteprima il primo capitolo. Buona lettura!

sabato 14 aprile 2012

La caccia \4

Ruanda e Jugoslavia facevano parte del Movimento dei Paesi Non Allineati, fondato nel 1961 a Belgrado, anche se già nel 1955 alla Conferenza di Bandung, in Indonesia, i leader politici di Jugoslavia, India, Egitto, Ghana e Indonesia avevano annunciato al mondo l'intenzione di costituire un'alleanza di paesi intenzionati a non schierarsi con nessuno dei due blocchi della Guerra Fredda. Lo scopo dell'alleanza era di garantire ai paesi costituenti "l'indipendenza nazionale, la sovranità, l'integrità territoriale e la sicurezza". In altre parole, di preservarne l'autonomia appena ottenuta dopo la fine dei grandi imperi coloniali, con particolare riferimento alla questione cruciale del controllo e della gestione delle materie prime presenti nel loro sottosuolo.
La guida politica dell'alleanza era un paese montagnoso e chiuso, dotato di grande prestigio internazionale grazie all'epica lotta di liberazione condotta dal suo popolo contro il nazifascismo, ma completamente privo di risorse naturali di un qualche valore: la Jugoslavia. L'abilità diplomatica di Tito, benedetta dal Partito Laburista britannico e dall'intera sinistra europea, aveva saputo coalizzare all'interno dell'Assemblea delle Nazioni Unite gran parte dei paesi in via di sviluppo, creando una sorta di contro-potere rispetto alle organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario o il WTO.
Tito morì il 4 maggio 1980, tre giorni prima del suo 88° compleanno, nel momento in cui una parte del mondo industrialmente sviluppato aveva già deciso di sbarazzarsi dell'enorme serie di vincoli che l'antifascismo mondiale, nel corso della Guerra Fredda, aveva posto al "libero dispiegarsi delle forze produttive". I suoi funerali furono i più partecipati della storia: erano presenti 4 re, 31 presidenti, 6 principi, 22 primi ministri e 47 ministri degli esteri, provenienti da 128 paesi. Solo 12 anni dopo, quando la Jugoslavia precipiterà nella sanguinosa guerra civile, tutte queste personalità si terranno ben alla larga dai luoghi del conflitto, con l'eccezione di qualcuno, come il presidente francese Mitterand, che, sotto la pressione dei militanti del Centro André Malraux, rimasti a Sarajevo per tutta la durata dell'assedio, si recherà per qualche ora nella città assediata per fare un po' di passerella.
Il resto dell'elite del potere mondiale ha già deciso che le limitazioni al commercio internazionale e alla libera circolazione dei capitali devono saltare, e con esse debba saltare anche la Jugoslavia che nel 1992, allo scoppio della guerra, verrà immediatamente esclusa dal Movimento dei Paesi Non-Allineati, pur essendone uno dei fondatori. L'Armata Federale Jugoslava, che i cittadini della Jugoslavia credevano essere a loro protezione, si rivelerà solo un fantoccio nelle mani dei generali dell'Armata Rossa, alcuni dei quali, secondo il giornalista e scrittore Paolo Rumiz, in quei giorni siedono direttamente sulle poltrone di comando della Nato a Bruxelles per dirigere le operazioni di sterminio, in particolare nella Bosnia, la regione simbolo della politica di Tito, il tramite tra Occidente e Islam, tra Europa, Asia e Africa.
E' una grande festa crudele. Tutto il mondo ( le classi dirigenti, per lo meno ) assistono al massacro in corso nei Balcani senza fare nulla per fermarlo, aspettando solo il momento buono per scatenare la follia distruttiva che farà a pezzi il Ruanda, il vero obiettivo di tutta l'operazione. Lo stato cuscinetto, nato dalla decolonizzazione, nel corso della sua breve esistenza ha protetto le immense risorse minerarie del Congo Orientale dalla rapacità delle multinazionali.  Dopo la guerra civile e il genocidio, numerose bande armate sconfineranno per schiavizzare la popolazione locale e costringerla a lavorare nelle miniere, al fine di estrarre artigianalmente i preziosi minerali che, contrabbandati attraverso il Ruanda ormai pacificato, giungono fino ai porti della Tanzania, con destinazione ( probabilmente ) Sud - Est Asiatico, in particolare la Thailandia, dove, nel giro di qualche anno, una tempesta finanziaria provocata ad arte dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale farà a pezzi il pre-esistente tessuto economico industriale, basato in larga misura sull'industria meccanica, e favorirà l'ascesa di una classe dirigente corrotta e bendisposta verso i grandi interessi esterni.
Se volete saperne di più, non dovete fare altro che seguire questo link e accedere alla relativa pagina di wikipedia sull'argomento: se non conoscete l'inglese potete aiutarvi con il traduttore di google. Sfortunatamente le pagine in italiano di wikipedia contengono meno di un terzo delle informazioni contenute in quelle di lingua inglese e alcune non vengono neppure tradotte: quella riguardante i pasticci del Comitato sull'Etica del Fondo Petrolifero Norvegese, per esempio, è disponibile in tutte le principali lingue del mondo tranne che in italiano.
Infine, se proprio ci tenete a togliervi tutti i dubbi e le curiosità riguardanti il genocidio nella ex-Jugoslavia, provate a rispondere alla seguente domanda: che cosa produceva la fabbrica di Srebrenica ( oggi ovviamente smantellata ) nella quale, nel luglio 1995, furono rinchiusi gli oltre 8.000 civili in attesa dell'esecuzione?
( fine )

domenica 8 aprile 2012

La caccia \3

Il 12 luglio 2001, le autorità svizzere catturano un ex cappellano dell'esercito ruandese, Emmanuel Rukundo, un sacerdote cattolico accusato di aver preso parte agli eccidi di Tutsi a Kabagayi. Quattro le incriminazioni a suo carico: genocidio, complicità nel genocidio, omicidio e sterminio. E' il primo esponente della Chiesa cattolica che il Tribunale per il Ruanda prende in custodia. Contemporaneamente, in Belgio, la polizia arresta un ex ministro delle Finanze ruandese, Emmanuel Ndindabahizi, con imputazioni di genocidio, incitazione al genocidio, crimini contro l'umanità e omicidio. Infine a Leida, in Olanda, viene arrestato Simon Bikindi, un musicista molto popolare in Ruanda, accusato di aver partecipato all'organizzazione di gruppi della milizia Hutu.
Lo stesso giorno era in programma anche l'arresto di Athanase Seromba, il prete cattolico che ha aiutato le milizie Hutu a massacrare circa duemila Tutsi, uomini, donne e bambini che si erano rifugiati nella sua chiesa, sbarrando il portone d'ingresso e indicando ai massacratori il punto, nelle pareti della chiesa, più facile da abbattere. Dopo l'eccidio il sacerdote fugge in Italia attraverso il vicino Congo grazie ad una rete di suore e di preti che lo aiutano ad ottenere un incarico come viceparroco a Firenze e, nel 2000, presso la frazione di San Mauro a Signa, dove Seromba celebra persino la messa. Carla Del Ponte firma la sua incriminazione l'8 giugno del 2001, ma il governo italiano si rifiuta di eseguire il mandato, sostenendo di non disporre dell'autorità necessaria. La Del Ponte allora esercita delle pressioni sul Vaticano che, a quanto pare, si è già adoperato per trovare un nascondiglio sicuro al parroco, dopo che questi, durante un sermone domenicale, ha confessato ai suoi parrocchiani esterrefatti di essere ricercato dal Tribunale Internazionale.
A metà giugno del 2001 un tribunale belga condanna due suore ruandesi, suor Julienne Kisito e suor Gertrude Mukangango, a dodici e quindici anni di carcere rispettivamente per avere svelato agli squadroni della morte ruandesi i luoghi nei quali si erano rifugiati migliaia di civili Tutsi. Inoltre, testimoni affermano che le due suore hanno procurato ai massacratori le taniche di benzina necessarie per appiccare il fuoco all'edificio nel quale si erano riparati i civili in fuga. L'allora portavoce del Vaticano, Joaquìn Navarro-Valls, dichiara: "La Santa Sede non può che esprimere una certa sorpresa nel vedere riversare su poche persone le gravi responsabilità di numerosi uomini e gruppi, anch'essi coinvolti nel tremendo genocidio compiutosi nel cuore dell'Africa".
La Del Ponte non molla e chiede un incontro con le autorità ecclesiastiche per convincere Seromba a costituirsi. Seraficamente, il rappresentante della Santa Sede dice che Seromba sta facendo un buon lavoro a San Mauro a Signa e che la Chiesa non farà niente, perché l'arresto del sacerdote riguarda le autorità civili. Così il magistrato svizzero chiede un colloquio all'allora primo ministro Silvio Berlusconi, il quale promette di emanare un decreto esecutivo se nel giro di qualche mese la faccenda non si risolverà in modo diverso e, per non farsi mancare nulla, approfitta dell'occasione per perorare la sua causa nei confronti dei giudici "rossi" della Procura di Milano, che lo perseguitano inventandosi reati che lui "non ha commesso" perché sono "comunisti e in malafede".
La Del Ponte rientra in Svizzera e, dopo qualche mese, Athanase Seromba finalmente si costituisce mettendo fine alla sua latitanza. La diocesi di Firenze emette un comunicato in cui afferma che Seromba è venuto a conoscenza delle "gravi accuse che gli vengono mosse solo tramite la stampa" e che lui stesso è interessato a che venga fatta luce sulle stesse. Seromba verrà condannato a 15 anni di detenzione per i reati di genocidio e sterminio.
Carla Del Ponte tornerà in Vaticano nella primavera del 2005, per incontrare Giovanni Lajolo, il ministro degli  esteri della Santa Sede. Il motivo, questa volta non riguarda il Ruanda, ma la ex-Jugoslavia: un generale croato, Ante Gotovina, è ritenuto responsabile di aver comandato eccidi di civili serbi nella regione della Krajina, nel corso dell'operazione Tempesta, lanciata dall'esercito croato nell'estate del 1995. Il Tribunale Internazionale sospetta che il generale, un reduce della Legione Straniera, si nasconda in Croazia sfruttando la rete di monasteri francescani distribuiti sul territorio che gli consentono di sfuggire alle maglie della polizia internazionale. La conversazione tra la Del Ponte e Monsignor Lajolo, parzialmente riportata nel libro del magistrato, ha un tono tragicomico: la prima dichiarazione di Lajolo, "il Vaticano non è uno stato, pertanto non può fare nulla", lascia letteralmente sbigottito il magistrato svizzero il quale, sapendo bene che il Vaticano, oltre a essere uno stato, possiede un ottimo servizio di intelligence, chiede al prelato di effettuare un'indagine per scoprire se Gotovica si nasconda veramente in un monastero in Croazia. Monsignor Lajolo la prende molto male: si alza bruscamente e se ne va, senza dire nulla. La Del Ponte e il suo accompagnatore rimangono seduti, soli e in silenzio, per diversi minuti, nell'ampia sala, circondati solo da crocifissi, reliquie, statue e dai soffitti affrescati da Raffaello e Michelangelo. ( continua )

mercoledì 4 aprile 2012

La caccia \2

"Cercavo di spezzare il pesante, muto, incantesimo di quella terra selvaggia che sembrava attirarlo al suo petto impietoso risvegliando dimenticati istinti brutali, ricordando mostruose e appagate passioni. Solo questo, ero convinto, l'aveva portato al limite della foresta, verso la boscaglia, verso il bagliore dei falò, il palpito dei tamburi, la cantilena di misteriosi incantesimi. Solo questo aveva allettato la sua anima senza legge oltre i confini delle legittime aspirazioni." Così, nel romanzo Cuore di Tenebra, Joseph Conrad descrive l'incontro tra Marlow, il narratore, con Kurtz, l'uomo che ha saputo evocare i demoni della foresta del Congo, risvegliando gli istinti brutali degli indigeni che lo adorano come se fosse una divinità nonostante lui li atterrisca, li sevizi e li torturi senza pietà. Loro lo amano e lui li odia alla follia, ma non riesce a staccarsene e il legame di potere incondizionato che si è instaurato tra Kurtz e gli indigeni nel folto della giungla assume sempre di più i caratteri dell'autodistruzione e del dissolvimento morale.
Chi è il Kurtz della guerra civile che ha dilaniato il Ruanda? Chi è colui che ha saputo evocare i demoni della giungla per scatenare un vortice di distruzione e di morte? Sono tanti, spesso sono giovani e fanno parte dell'establishment locale, perché sono istruiti e hanno avuto la possibilità di studiare all'estero, in Francia, in Canada o in Unione Sovietica. Uno di questi è italiano, anche se è nato in Belgio: si chiama George Ruggiu e lavora per una radio locale, la Radio Libera delle Mille Colline. Come altri presentatori e dj della Radio, quando scoppia la guerra incita all'odio e alla violenza contro l'etnia dei Tutsi, li chiama "scarafaggi" ed esorta le milizie Hutu a sterminarli senza pietà, perché le fosse "aspettano di essere riempite". Ruggiu si è dichiarato colpevole del reato di incitazione al genocidio e nel 2000 è stato condannato a 12 anni di carcere che lui ha scelto di scontare, guarda un po', in Italia. Nel 2009, però, le autorità giudiziarie del Belpaese hanno deciso di lasciarlo libero in anticipo sulla fine della pena, nonostante questo atto comporti una violazione dello statuto del Tribunale Internazionale per i Crimini nel Ruanda.
Ma la vera sorpresa, quando si scorrono gli atti dei processi, arriva constatando quanti religiosi sono stati coinvolti nei massacri. Si direbbe che il clima subtropicale abbia fatto esplodere i neuroni a tutti i prelati presenti in Ruanda dall'aprile al luglio del 1994. Un prete cattolico di nome Athanase Seromba prima invita circa duemila Tutsi a ripararsi nella sua chiesa per sfuggire alle milizie Hutu, poi sbarra il portone d'ingresso e indica al capo della milizia il punto esatto nelle mura che può essere sfondato più facilmente. I massacratori lanciano una ruspa a tutta velocità contro la parete, nella posizione precisa indicata dal prete, la abbattono, entrano nell'edificio e uccidono tutti i civili che vi sono rintanati. Seromba fugge dal Ruanda attraverso il Congo e si rifugia anche lui in Italia, in Toscana, presso la parrocchia dell'Immacolata di San Martino in Montughi, vicino a Firenze. Sotto le pressioni di Carla Del Ponte il prete viene estradato dall'Italia e processato ad Arusha, in Tanzania, dove ha sede il Tribunale Internazionale e dove Seromba viene condannato a 15 anni di carcere per genocidio e crimini contro l'umanità. Nel 2008, nel processo di appello, la condanna sarà commutata in ergastolo, che il prete sta scontando in un carcere del Benin.
Ancora preti: Wenceslas Munyeshyaka si renderà colpevole di consegnare ai massacratori Hutu centinaia di suoi parrocchiani che di lui si fidano ciecamente, conducendoli al macello come tanti agnellini belanti. Anch'egli è stato condannato in contumacia all'ergastolo dal Tribunale Militare Ruandese. Emmanuel Rukundo è stato condannato per genocidio e crimini contro l'umanità, dopo avere partecipato agli stupri di gruppo delle donne Tutsi che si erano rifugiate all'interno della sua chiesa.
E salendo ai piani alti la musica non cambia: Vincent Nsengiyumva, arcivescovo di Kigali, la capitale del paese, ha presieduto il Comitato Centrale del principale partito al governo (!) per 14 anni, prima che il Vaticano, nel 1990, lo richiamasse ufficialmente ad una maggiore disciplina. Appartenente all'etnia Hutu e amico personale del presidente Habyarimana, il cui omicidio scatenò la guerra civile, incolpò pubblicamente i Tutsi di avere scatenato il genocidio, che lui invece definì un "mezzo per garantire il governo democratico della maggioranza". All'età di 58 anni, Nsengiyuma venne ucciso, assieme ad altri due vescovi e a tredici preti, da alcuni ribelli Tutsi che lo credevano responsabile del massacro delle rispettive famiglie.
Un altro vescovo, Augustin Misago, venne arrestato nell'aprile del 1999 e liberato l'anno successivo da un tribunale ruandese che lo giudicò non colpevole. Misago tornò alla sua diocesi, ma qui tutti i preti di origine Tutsi preferìrono trasferirsi alla diocesi vicina per protesta nei suoi confronti. Tra l'altro, Misago è stato pubblicamente accusato di non aver aiutato un missionario inseguito e ucciso dalle milizie Hutu perché aveva prestato soccorso ad alcuni profughi.
Infine, ancora un vescovo è complice di uno dei peggiori massacri della guerra civile, quello della scuola tecnica di Murambi. I Tutsi della regione, infatti, si erano rifugiati nella chiesa locale, ma il vescovo, assieme al sindaco della città, li spinse in trappola convincendoli a trasferirsi nell'edificio che ospitava la scuola tecnica, con la promessa che sarebbero stati difesi da truppe francesi. Il 16 aprile del 1994, nella scuola avevano trovato rifugio ben 65.000 Tutsi. A quel punto fu tolta l'acqua e l'elettricità; i profughi, senza neppure il cibo per nutrirsi, si difesero disperatamente per alcuni giorni a colpi di pietre, prima di soccombere alle milizie Hutu, che ne massacrarono 45.000 senza che i soldati francesi si facessero vedere. I sopravvissuti cercarono di rifugiarsi in una chiesa nelle vicinanze, dove furono aggrediti e uccisi. In seguito i soldati francesi intervennero, ma per scavare un'enorme fossa comune e costruirci sopra un campo di pallavolo, al fine di occultare la presenza dei cadaveri. Oggi l'edificio scolastico è stato trasformato in un Museo del Genocidio che ospita i teschi e i corpi mummificati di alcune migliaia di vittime di quella strage. ( continua )