"considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango,
che non conosce pace,
che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no."
che lavora nel fango,
che non conosce pace,
che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no."
Così Primo Levi descrisse la sua esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz, tra i pochi miracolosamente sopravvissuti alla volontà di sterminio delle SS fino all'arrivo delle truppe dell'Armata Rossa. Primo Levi si suicidò nel 1987, dopo che, divenuto comunista, aveva trascorso l'intera esistenza cercando di tenere vivo nei suoi simili il ricordo degli orrori che aveva vissuto in prima persona. Un suo amico, lo storico Nicola Tranfaglia, commentandone il suicidio disse che lo scrittore era caduto in uno stato di profonda depressione, dovuto all'impressione che ricavava ogni volta che si recava in una scuola per parlare della sua esperienza, cioè che agli studenti non importasse nulla di un passato tanto remoto, così come della realtà dei campi di concentramento.
Ieri, in mezzo al fiume di parole spese per celebrare il giorno della memoria, molto di rado mi è sembrato di aver sentito pronunciare il nome di Primo Levi in uno dei tanti servizi televisivi dedicati alla ricorrenza, o di averlo letto sulle pagine degli utenti di Facebook oppure su uno dei tanti blog che animano la rete.
Quando Levi si suicidò gettandosi dalla tromba delle scale nella casa di Torino in cui abitava io frequentavo la quinta liceo e mi stavo preparando svogliatamente alla maturità. All'epoca non lo avevo mai letto ( il mio nutrimento culturale era composto di elementi molto dozzinali, musica rock e romanzi di Stephen King ), ma mi colpì il fatto che una persona che era sopravvissuta all'inferno dei campi di concentramento nazisti decidesse di mettere fine prematuramente alla propria vita. Pensavo, a torto, che chi esce vivo da qualcosa come Auschwitz fosse temprato ad affrontare qualsiasi avversità.
Ieri, in mezzo al fiume di parole spese per celebrare il giorno della memoria, molto di rado mi è sembrato di aver sentito pronunciare il nome di Primo Levi in uno dei tanti servizi televisivi dedicati alla ricorrenza, o di averlo letto sulle pagine degli utenti di Facebook oppure su uno dei tanti blog che animano la rete.
Quando Levi si suicidò gettandosi dalla tromba delle scale nella casa di Torino in cui abitava io frequentavo la quinta liceo e mi stavo preparando svogliatamente alla maturità. All'epoca non lo avevo mai letto ( il mio nutrimento culturale era composto di elementi molto dozzinali, musica rock e romanzi di Stephen King ), ma mi colpì il fatto che una persona che era sopravvissuta all'inferno dei campi di concentramento nazisti decidesse di mettere fine prematuramente alla propria vita. Pensavo, a torto, che chi esce vivo da qualcosa come Auschwitz fosse temprato ad affrontare qualsiasi avversità.
"voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici"
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici"
Primo Levi sapeva che i regimi comunisti dell'Europa dell'Est stavano per finire e che il loro crollo si sarebbe portato dietro, oltre alle macerie di enormi apparati burocratici, anche il sogno di creare un'umanità diversa da quella che aveva prodotto Auschwitz. Sapeva che le persone che amano vivere sicure nelle proprie case, al riparo e al caldo, avrebbero ancora una volta permesso la ripetizione degli orrori che lui aveva vissuto oltre quarant'anni prima. Levi aveva capito tutto ciò e non ha resistito all'idea che la storia riscuotesse nuovamente da milioni di persone innocenti un pedaggio di dolore, di sofferenze e di sangue elevatissimo. Aveva capito tutto ciò e non ha resistito. Per questo si è tolto la vita.
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